HISTORIA LANGOBARDORUM

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    HISTORIA LANGOBARDARUM
    di Paolo Diacono





    Preliminarmente è utile inserire il contesto storico in cui fu scritta la Historia di Paolo Diacono. I tempi, infatti, erano maturi per reinterpretare la storia di Roma in chiave cristiana. L'Urbe non era più identificativa della "città di Satana" ma rappresentazione in terra della città di Dio, così come venne originariamente esposto da Orosio nelle sue Historiae.
    Ma il vero autore di una storia nazionale romana ad ispirazione cristiana Cassiodoro lo individua in Simmaco, suocero di Boezio, entrambi mandati a morte de re Teodorico, e autore dell'Historia Romana; con Simmaco, in sostanza, si ha la prosecuzione dell'opera intentata da Orosio: la cristianizzazione della storiografia specificamente romana.
    Ben presto nacquero opere storiografiche che coniugavano lo spirito nazionalistico delle varie gentes germaniche con quello religioso che ruotava intorno la Roma cristiana: e ci si riferisce all'Historia Francorum di Gregorio di Tours, alla "Storia dei Goti" dello stesso Cassiodoro, non prevenutaci ma nota attraverso il rifacimento abbreviativo di Giordane dal titolo De origineactibusque Getarum (dove per Geti bisogna intendere i Goti); e non bisogna dimenticare, infine, Beda il Venerabile, che, ben a conoscenza dei rapporti dei legami della Chiesa romana con quella anglosassone, fu autore di una Historia ecclesiastica gentis Anglorum. E così come la Historia Romana di Simmaco e la Storia dei Goti di Cassiodoro ebbero fortuna la prima nell'ambito della storiografia cristiana ad indirizzo nazionale romana e la seconda a quella cristiana ad indirizzo nazionale germanico, l'opera di Beda fece fiorire le numerose storie e cronache ecclesiastiche locali.
    Venendo, ora, all'autore dell'Historia Paolo nacque a Cividale in Friuli intorno al 720 dai nobili Warnefrit e Teodolinda. Lo stesso ricorda che durante la disastrosa invasione degli Avari del 610 suo nonno Lopichis venisse fatto prigioniero e portato via dal Friuli; Paolo, dopo aver vissuto con i fratelli in prigionia, più tardi riuscirà a fuggire e tornare tra le genti longobarde in Italia. Ebbe certamente un fratello e una sorella.
    Si sa che Cividale era un centro fiorente culturale, secondo, nel regno longobardo, soltanto a Pavia, la capitale. E ciò appariva del tutto naturale se si pensa che alla venuta di Alboino, nel 568, questi fissò la dimora del su regno proprio a Cividale.
    Le notizie sulla formazione culturale pavese di Paolo si desumono sia dalle sue opere, sia interpretando epitaffio di Hildric (italianizzato, Ilderico), suo allievo nonché futuro abate di Montecassino per 17 giorni nell'834, sia ciò che viene riportato dall'anonimo autore nel Chronicon Salernitanum.

    Edited by Seiano - 13/8/2015, 17:47
     
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    Dalle fonti storiche è noto che lo storico visse al tempo di re Ratchis che, deposto nel 749, si ritira nel monastero di Montecassino; gli succede il discusso Astolfo che ben presto non nasconde le sue mire espansionistiche verso lo Stato della Chiesa, occupando l'Istria, la Pentapoli, l'Esarcato di Ravenna, minacciando, infine, Roma stessa.
    Il papa invoca l'intervento di Pipino che scende in Italia cingendo d'assedio Pavia e Astolfo; questi morrà due anni dopo, lasciando le il regno nelle mani dell'ultimo e sventurato re longobardo, Desiderio.
    Più tardi troviamo testimonianze di Paolo come notarius presso la corte di Desiderio, ma soprattutto come tutore ed istitutore della figlia del re, Adelperga che più tardi sposerà il duca di Benevento, Arechi II.
    Il re, nello scontro contro Carlo Magno, si era chiuso in Pavia dal settembre 773, mentre il figlio Adelchi preparava la resistenza a Verona; questa cadde prima di Natale mentre il principe longobardo fuggiva in Oriente a Costantinopoli. Nel giugno del 774 Pavia capitolava e con essa l'ultimo baluardo d'indipendenza del regno longobardo; Desiderio e la moglie Ansa verranno condotti n cattività a Corbie, in Francia, terminando gli ultimi anni della loro vita in condizione di semi-prigionia.
    L'unico punto di riferimento degli ultimi patrioti longobardi rimane il genero dell'ultimo sovrano, Arechi II, genero di Desiderio e sposo della di lui figlia Adelperga.
    In conseguenza di tutti questi avvenimenti, intriso com'era di un forte spirito patriottico, Paolo decide di abbandonare la corte di Carlo, pur venendo accolto con tutti gli onori dal neoimperatore, ritirandosi presso il convento di Montecassino.
    Con questo sito nostro autore ebbe un rapporto molto stretto. Era un luogo mistico, importante dal punto di vista politico e culturale: lì si erano incontrati papi e re, era rifugio per i perseguitati e confino per personaggi scomodi.
    Da diverse testimonianze possiamo trarre la conclusione che se non subito Paolo comunque entrò a far parte del cenobio benedettino divenendo monaco; e ad un animo tanto vivace doveva certamente essere confacente la grande disponibilità culturale presente a Montecassino; una grave mancanza, ad ogni modo, vi trovò Paolo: diversi e vari errori di trascrizione, anche dovuti all'ignoranza dei vari monaci amanuensi che si erano succeduti nella ricopia dei testi classici.
    Ma un altro evento rende più amara la permanenza a Montecassino di Paolo: la famiglia del fratello, fatto prigioniero da re Carlo, non ha sufficienti mezzi di sostentamento; questo fatto induce il nostro autore a rivolgersi alla corte del sovrano carolingio. Nonostante re Carlo fosse stato l'autore, l'artefice della caduta del regno dei suoi antenati, con il passar del tempo il sovrano franco dimostrò clemenza verso i popoli vinti, primo fra tutti quello longobardo. Non si dimentichi, inoltre, che con la notte di Natale dell'800 Carlo diverrà, poi, imperatore del Sacro Romano Impero, continuatore indiscusso dei fasti dell'antivo Impero Romano d'Occidente, che troverà il crisma della sacralità proprio con l'incoronazione di Carlo da parte di papa Leone III. La conseguenza era che anche l'Impero Romano d'Oriente non costituiva più il baricentro della cristianità nel mondo.
    Facendo leva sulla forte stima che il nuovo sovrano riponeva nel dotto longobardo Paolo alfine si decise a chiedere a Carlo di liberare il proprio fratello, ancora prigioniero in Francia.
     
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    È sempre un piacere leggere i tuoi resoconti storici....in più è un periodo che riguarda la mia città di adozione,Pavia,che ancora oggi reca evidenti tracce di questo passato.
    Saluti
     
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    Grazie Seiano di questo bellissimo contributo :)

    Manfredina, non sono mai stato a Pavia e mi sorge un dubbio: quanto è rimasto dei Longobardi in questa città?
    Ho sempre pensato che Cividale fosse il principale posto ad oggi dove più si possono ammirare maggiormente i resti delle arti e la cultura dei lungo barbi ;)
     
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    Caro Smoky dal punto di vista architettonico molto
    Un mio amico architetto Alberto Arecchi ha scritto molto in argomento,anche un testo che penso si chiami Pavia Longobardorum
    Sei dovessi capitare da queste parti avresti un appasionato Cicerone
     
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  6. _Smoky_
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    Non è da escludere Manfredina ;)
     
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    E saresti nostro graditissimo ospite,te e le persone che avranno la fortuna di accompagnarti
     
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    Smoky...Manfred...per favore niente complimenti. Qui tutti e ognuno impara dagli altri, me in primis, grazie ai contributi vostri e di tutti gli utenti del forum.
    Comunque riguardo l'importanza delle due città. Secondo me Cividale ha un valore no indifferente sia dal punto di vista politico che simbolico: fu la capitale del primo ducato longobardo in Italia eretto da Alboino all'indomani della sua discesa nella penisola nel 568.
    Pavia sicuramente ha avuto un'importanza non indifferente perché ultima capitale del regno longobardo fino alla sua caduta nel 774.
    Ad ogni modo, tornando all'opera di Paolo:

    Un fratello di Rodulfo era venuto a negoziare la pace con Tatone. Nel tornare in patria si trovò a passare davanti la case di Rumetruda, figlia del re. Ella, incuriosita, chiese ai suoi servitori chi fosse quell'uomo che portasse seco quel gran seguito di uomini; saputa la sua identità, invitò l'ospite a bere un bicchiere di vino ma questi, fu oggetto di scherno da parte della principessa una volta vista la sua bassa statura. Il principe straniero rispose con parole così dure da far covare la vendetta nell'animo di Rumetruda. Questa, infatti, simulando di non essersi affatto offesa per le parole del suo illustre ospite, coperta la finestra di un drappo prezioso per non destare alcun sospetto, vi cela dietro i suoi servitori che alla parola concordato trafiggono con lance l'ignaro ospite. Rodulfo, venuto a sapere dell'ingiusta morte del fratello, rompe in patti di non belligeranza con Tatone, dichiarandogli guerra. Nonostante gli Eruli fossero noti per esercitare al meglio l'arte della guerra, devono ripiegare di fronte all'avanzata dei Longobardi. Ben presto gli Eruli vengono massacrati e lo stesso re Rodulfo viene ucciso. I Longobardi, completata la vittoria, si spartiscono l'ingente bottino ottenuto.
    Dopo questa grande vittoria si spande la fama dei Longobardi come valorosi e indomiti guerrieri.
     
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    Ma Tatone ben presto dovette combattere contro suo Wacone, figlio di suo fratello Zuchilone. Contro Wacone combatté, a sua volta, Ildichi, figlio di Tatone. Il primo ne uscì vincitore, mentre Ildichi si rifugiò presso i Gepidi, verso i quali i Longobardi mantennero sempre una perenne inimicizia.
    Successivamente Wacone aggredì i Gepidi e li sottomise al suo potere. Il re longobardo ebbe tre mogli: la prima fu Ranicunda, figlia del re dei Turingi; quindi sposò Austrigosa, figlia del re dei Gepidi da cui ebbe due figlie: Wisigarda che fu data in sposa a Teodeberto, re dei Franchi; e Walderada, che fu data in moglie a Cusupaldo, altro re franco che successivamente fu ripudiata e fatta sposare a uno dei suoi fedelissimi, Garibaldo. Infine, l'ultima moglie di Wacone fu Salinga, figlia del re degli Eruli da cui ebbe un figlio cui fu dato nome Waltari, erede e futuro successore al trono del re longobardo. Il regno di Waltari durò 7 anni dopo i quali salì al trono Audoino.
    L'ostilità tra Gepidi e Longobardi fu così forte che si venne presto a guerra. Quando Alboino, figlio di Audoino, e Turismondo figlio di Turisindo, re dei Gepidi, vengono a lotta, Alboino colpisce con la spada il suo avversario, lo sbalza da cavallo e l'uccide. I Gepidi, visto il valoroso figlio del loro re perito in battaglia, sono sbandati e, datisi prima alla fuga, vengono sbaragliati e uccisi dai loro nemici longobardi.
    Questi chiedono al loro re di invitare Alboino al convivio dei festeggiamenti in quanto artefice della vittoria longobarda. MA Audoino rispose che è tradizione presso i Longobardi, che il figlio di un re non possa cenare con il proprio genitore fin quando non avrà ricevuto le armi dalle mani di un re straniero.
    Udite queste parole Alboino si mette alla testa di 40 dei suoi, e si reca all'accampamento di Turismodo, re dei Gepidi; questi dapprima lo accoglie benignamente, invitandolo al suo banchetto; indi, resosi conto che a quel posto sedeva l'uccisore di suo figlio, replicò con parole più dure. A quel punto un altro figlio del re denigrò i Longobardi, paragonandoli a delle cavalle "buone a nulla". Uno dei Longobardi controreplica all'offesa, ricordando ai Gepidi il loro valore nella battaglia.
    Già gli uni e gli altri stanno mettendo mano alle spade quando il vecchio re Turisindo si frappone tra loro, invita tutti i commensali a riporre le proprie spade nei foderi continuando e a riprendere il convito come se niente fosse successo. Prima di ritornare presso il suo popolo Alboino ricevette da Turisindo le armi del proprio figlio Turismodo morto in battaglia.
    Alboino raccontò tutto al padre, venendo lodato per questa sua ardua impresa; da allora in poi il padre lo invitò presso i suoi banchetti mentre il popolo elogiava sia il principe per il suo valoroso gesto, sia Turisindo per la grandissima lealtà dimostrata.
    Nel frattempo nell'impero romano d'Oriente regnava Giustiniano che grazie all'opera del suo abile e valente generale Belisario, aveva sconfitto definitivamente i Persiani e i Vandali, dop aver catturato il re di quest'ultimo popolo, Gelismero; la conseguenza fu la riconquista dell'Africa dopo 96 anni; inoltre sconfisse definitivamente gli Ostrogoti, catturando il loro re Vitige.
     
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    Grazie al console Giovanni, Giustiniano sgominò i Mauri e il loro re Amtalan. A lui si deve la redazione del Codex Iuris Civilisi, di cui facevano parte, tra l'altro, le sentenze dei magistrati che lui riordinò nelle Pandectae o Digesta, mentre i principi generali di tutte le leggi vennero riordinati nelle Institutiones; infine le leggi da lui stesso promulgate furono compilate in un unico volume che prese il nome di Novellae.
    Dal punto di vista religioso e architettonico fece erigere un maestoso e imponente tempio a Cristo Signore e dedicato a Ἃγιαν Σοφίαν, la Sacra Sapienza.
    Sotto il suo regno, inoltre, vissero Cassiodoro che fu dapprima console, poi senatore, infine monaco; nello stesso periodo ,l'abate Dionigi calcolò il ciclo pasquale; mentre Aratore, suddiacono della chiesa di Roma, pose in versi esametri gli Atti degli Apostoli. A questo punto dell'opera Paolo tesse le lodi di San Benedetto esponendo nell'Historia un poemetto scritto in distici e dedicato proprio al santo di Norcia.
     
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    Continuando nell'esposizione dell'opera, Alboino raggiunse una tale fama che il re di Franchi, Clotario, gli diede in moglia la propria figlia Clotsuinda; dalla loro unione nacque un'unica figlia, Aldsuinda.
    Nel frattempo il re dei Gepidi, Turisindo, moriva mentre l'erede al trono Cunimondo, preparava l'esercito per muovere guerra ai Longobardi. Ma Alboino aveva stipulato un'alleanza con gli Avari (erroneamente identificati da Paolo con gli Unni, n.d.f.); accadde che non appena i Gepidi loasciarono i oro territori, gli Avari invadessero i loro territori. Angosciato per l'accaduto, Cunimondo ordinò ai suoi di combattere comunque contro i Longobardi, nonostante questi, alla fine, avessero la meglio. I Gepidi erano stati definitivamente sconfitti, il bottino di guerra era ingente; tra questo anche la figlia del re, Rosmunda, fu tradotta nel territorio dei Longobardi per divenire la nuova moglie di Alboino; Clotsuinda, infatti, era morta tempo addietro.
     
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    Ben presto Narsete si attirò le invidie di molti patrizi in Italia tanto che fu inviato un messaggio a Giustino II, nuovo imperatore d'Oriente, e alla moglie Sofia in cui venivano esposti i soprusi e le angherie cui la popolazione italica era vessata a seguito del malgoverno di Narsete. A quel punto l'imperatore destituisce immantinente Narsete sostituendolo col suo luogotenente Longino. A seguito del grande astio che l'augusta imperatrice Sofia nutriva nei confronti di Narsete, al quale no era estraneo il motivo che fosse eunuco, il vecchio generale viene preso da così grande spavento e timore di tornare a Costantinopoli da rifugiarsi a Napoli, città della Campania; di lì a poco invia ambasciatori presso i Longobardi colmi di ogni genere di frutta e di ogni migliore primizia affinché tutto ciò li invoglia a scendere in Italia. Alboino, decisosi a muovere verso l'Italia, chiede aiuto ai Sassoni suoi antichi alleati affinché offrano uomini e mezzi per invadere la penisola. Gli antichi alleati accettano, ma nel contempo Clotario e Sigiberto, re dei Franchi, muovo gli Svevi e altre popolazioni germaniche verso i territori lasciati liberi dai Sassoni.
    Lo stesso fece Alboino, quando chiese agli Unni di stanziarsi sui propri territori col patto che, nel caso l'invasione dell'Italia fosse infruttuosa, avrebbero lasciato i territori aviti ai Longobardi. L'esodo verso l'Italia ebbe inizio il 2 aprile, 568 anni dopo l'incarnazione del Signore; avevano abitato la Pannonia per 42 anni.
    Si dice che Alboino, giunto sulla sommità di un monte, avesse posto lo sguardo sull'Italia fin dove il proprio sguardo poteva giungere. Appena giunto nella penisola occupò la fortificazione di Cividale del Friuli, con l'intenzione di fondare una prima città in territorio italico; fu scelto, come nuovo "duca", il nipote Gisulfo, fino ad allora suo scudiero. Questi accettò sotto la condizione che sarebbe stato lui stesso a scegliersi le "fare", cioè l'insieme dei gruppi familiari che avrebbero costituito il nerbo della nuova provincia conquistata.
    In quegli stessi giorni in cui i Longobardi invadevano l'Italia moriva il re dei Franchi Clotario; il regno fu diviso tra i 4 suoi figli: ad Ariperto fu assegnata la città di Parigi; a Guntramno quella di Orleans; a Ilperico il trono di Soissons; infine a Sigiberto fu assegnata la città di Metz.
    Era capo della città di Aquileia il patriarca Paolo che per il timore delle scorrerie dei Longobardi si rifugiò a Grado.
    Sempre nello stesso periodo avendo gli Unni saputo della morte di Clotario, attaccarono suo figlio Sigiberto che li sconfisse presso il fiume Elba. A Sigiberto fu data in moglie Brunechilde che proveniva dalla Spagna: dalla loro unione nacque Childeberto. Gli Avari si fecero nuovamente più minacciosi del solito e, ingaggiata battaglia con l'esercito franco, lo sgominarono ottenendone la vittoria.
    Nel frattempo Narsete era tornato a Roma e non molto tempo dopo morì; il suo corpo, racchiuso in un'arca di piombo con tutti i suoi tesori, fu traslato a Costantinopoli.
    Giunto al fiume Piave, ad Alboino si fece in contro il vescovo di Treviso Felice: questi confermò al re tutte le sue concessioni elargite con prammatica sanzione.
    Accanto alla figura di Felice il nostro affianca quella del venerabile Fortunato, amico del primo, che nacque a Vldobbiadene ma allevato ed educato a Ravenna. Soffrendo di un fortissimo dolore agli occhi, e soffrendo della stessa malattia anche Felice, entrambi si recarono presso la chiesa dei santi Paolo e Giovanni. Quivi, dietro l'altare dedicato al beato Martino, c'è una finestra sulla quale è posta una lampada; sia Felice che Fortunato si unsero gli occhi con l'olio di questa. Ad entrambi cessò quel dolore lancinante agli occhi riacquistando appieno la vista; nello stesso tempo Fortunato venerò tanti san Martino che abbandonò l'Italia poco prima che i Longobardi la invadessero e si recò, dopo varie peripezie, presso la città di Tours dove il santo è sepolto. Quivi divenne prima presbitero, poi vescovo.
     
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    Nel frattempo Alboino conquistava le altre città venete tra cui Vicenza e Verona, tranne Padova, Monselice e Mantova. Quella che oggi si chiama "regione dei Veneti" era molto più ampia di quella attuale: si estende dalla Pannonia al fiume Adda. "Eneti", in greco, significa "degni di lode"; alla Venezia è unita anche l'Istria, ed entrambe sono da considerare come unica provincia. La stessa Istria prende il nome dal fiume Istro. Originariamente capitale della Venezia era Aquileia, mentre ai tempi del nostro divenne Cividale del Friuli, così chiamata perché Cesare vi aveva edificato una piazza di mercato (forum Iulii).
    Tra le altre regioni italiche sono da annoverare la Liguria, così chiamata dal verbo latino legere, che significa raccogliere i legumi, di cui il territorio è molto fecondo; ad essa appartengono Milano e il Ticino, estendendosi fino alla Gallia. Tra la Liguria e la Svevia vi è la Rezia che si divide in Rezia prima e Rezia seconda, abitate, appunto, dai Reti.
    Altra provincia prende il nome dalle Alpi Cozie, chiamate così dal re Cozio, che visse al tempo di Nerone; si estende a sud-est della Liguria ed è delimitata ad Occidente dalla Gallia. In essa vi sono Acqui, Tortona, il monastero di Bobbio, Genova e Savona.
    La sesta provincia è la Toscana, così chiamata da tus, incenso, che il suo popolo soleva superstiziosamente utilizzare per ingraziarsi i propri dei; a nord-ovest di essa v'è l'Aurelia, ad oriente l'Umbria. In questa regione si trova Roma che un temo era capitale del mondo allora conosciuto. l'Umbria è così chiamata perché scampò alle piogge (imbres) durante un diluvio che devastò i territori e le popolazioni vicine.
    La settima regione è la Campania, così chiamata perché in essa si trova la città di Capua e la sua fertilissima pianura; vi appartengono la stessa Capua, e le città di Napoli e Salerno; si estende da Roma fino al Sele. Da questo fino allo stretto di Sicilia vi sono le due regioni della Lucania (così chiamata da lucus, un bosco sacro), e la Bruzia, che prende il nome da una sua antica regina che governò quelle terre; vi si trovano le città di Laino, Pesto, Cassiano, Cosenza e Reggio.
     
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    La nona provincia è quella che si trova nelle alpi Appennine, così chiamate dai Punici, cioè dai Cartaginesi che muovendo verso Roma le attraversarono.
    La decima provincia è l'Emilia, che si estende fra le alpi Appennine e il fiume Po, fino a Ravenna. Appartengono a questa regione le città di Bologna, Reggio, Parma, Piacenza e il Foro di Cornelio, la cui rocca è chiamata Imola.
    L'undicesima provincia è la Flaminia, che si estende tra le ali Appennine e il mare Adriatico. Di essa fa parte Ravenna e altre 5 città che costituiscono la Pentapoli. E' superfluo ricordare, ricorda Paolo, che l'Emilia, la Flaminia e l'Aurelia sono strade lastricate che partono da Roma e così chiamate dal nome di color che le hanno costruite.
    Dopo la Flaminia si incontra a dodicesima provincia, il Piceno, ch ah a sud gli Appennini e dall'altra parte l'Adriatico. Questa regione si estende fino al fiume Pescara, e vi si trovano le città di Fermo, Ascoli,Penna e Adria, che ha dato il nome al mare Adriatico. Quando gli attuali suoi abitanti si misero in viaggio dalla Sabinia verso di essa, un picus, cioè un picchio si posò sul loro vessillo, prendendo, appunto, il nome di Piceno.
    La tredicesima provincia è la Valeria, cui è annessa la Norcia, e si trova fra l'Umbria, la Campania, e il Piceno, e a est confina con il Sannio. La sua parte occidentale, che inizia dalla città di Roma, un tempo era chiamata Etruria, perché abitata dagli Etruschi.
    La quattordicesima provincia è considerata il Sannio, fra la Campania, l'Adriatico e l'Apulia, e ha inizio dal fiume Pescara; ad essa appartengono le città di Chieti, Aufidena, Isernia, Sannio, da cui prende il nome tutta la provincia, nonché la sua capitale, la ricchissima Benevento. I Sanniti vengono così chiamati dalle lance che erano soliti portare, e che i Greci chiamavano saynia.
    La quindicesima provincia è l'Apulia, cui appartengono le città di Lucera, Seponto, Canosa, Agerenzia, Brindisi, Taranto e Otranto. Il nome Apulia deriva dalla perdizione: infatti per le vampate di calore, le erbe e gli alberi vengono riarsi dal sole.
    Sedicesima provincia è la Sicilia, così chiamata dal nome del suo condottiero, Siculo; è circondata dal mare Tirreno e Ionio.
    Diciassettesima è la Corsica; diciottesima la Sardegna, entrambe circondate dal mar Tirreno. La prima prende il nome da Corso, suo condottiero, mentre la seconda da Sardi, figlio di Ercole.
    Gli antichi scrittori chiamarono Galia Cisalpina la Liguria, parte della Venezia, l'Emilia e la Flaminia. In tempi antichissimi lo stesso Brenno, re dei Galli che governava la città di Senona, con 300.000 sei suoi scese in Italia e la occupò fino a Senigallia, che fu così chiamata dal nome dei sui invasori.
    Si narra che i Galli furono indotti ad invadere l'Italia una volta assaggiato il vino prodotto in queste terre; mentre si allontanavano dall'isola di Delfo poco lontano 100.000 furono sterminati dalle armi dei Greci; un egual numero entrarono in Galazia e furono chiamati Gallogreci prima, Galati dopo. Altri 100.000 rimasero in Italia fondando le città di Milano, Brescia, Ticino, Bergamo, diedero il nome alla Gallia Cisalpina. Questi popoli celtici presero il nome di Galli Senoni che una volta invasero la città di Romolo.
    Anche l'Italia è così chiamata da Italo, condottiero dei Siculi, che la occupò in tempi antichi; oppure Italia perché in essa vivono "grandi buoi", cioè itali; L'Italia è chiamata anche Ausonia, da Ausono, figlio di Ulisse. Originariamente era chiamata così la regione di Benevento, in seguito tutta l'Italia.
     
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    HIPPOCRATICA CIVITAS

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    L'Italia è chiamata anche Lazio perché in essa trovò riparo Saturno che fuggiva da suo figlio Giove.
    Ritornando alla narrazione iniziale, penetrato in Liguria Alboino giunse a Milano mentre l'arcivescovo Onorato, prelato di quella città, trovò rifugio a Genova.
    La città di Pavia resistette valorosamente per oltre 3 anni; nel frattempo Alboino occupò molte città della Toscana e delle province vicine, escluse Roma e Ravenna; né i Romani avevano la forza sufficiente e porre un valido baluardo in quanto in quel periodo era esplosa una grave carestia devastando tutta l'Italia.
    Come scritto sopra, dopo 3 anni e alcuni mesi Alboino riuscì ad entrare vincitore nella città di Pavia; mentre entrava per la porta orientale, detta di S. Giovanni, il proprio cavallo si fermò di scatto e stramazzò al suolo. Alcuni suoi fidi gli ricordarono il giuramento solenne che aveva fatto non appena avesse espugnato la città la decimazione di tutti i suoi abitanti con la sola colpa di aver resistito diversi anni e non esseri arresi subito all'invasore. Invitato a desistere da quel nefando proposito, il suo cavallo si riprese e il re poté entrare trionfante nella città conquistata.
    Ma il re, durante un convito in quel di Verona, invitò la propria moglie, Rosmunda (che ricordiamolo era la figlia del defunto re dei Gepidi Cunimondo) a bere nel teschio del padre; affranta dal dolore nacque in lei un desiderio di vendetta e di odio così forte da tramare ben presto insieme al suo amante Elmichi, che di Alboino era scilpor, cioè scudiero, e fratello di latte, a tramare una congiura per ucciderlo. Elmichi convinse la regina a fare entrare nel novero dei congiurati anche Peredeo, uomo assai forte che non era assolutamente propenso ad eliminare il proprio re. Per persuaderlo, o meglio per ricattarlo, Rosmunda si finse l'amante con cui aveva una relazione Peredeo; una volta consumato il rapporto la regina interrogò Peredeo che solo allora si rese conto di aver giaciuto con la sua signora. Fu facile, a quel punto, per Rosmunda, ricattare Peredeo: o uccidere il re o essere ucciso da questi per aver giaciuto con la sovrana.
     
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