L'ultima battagia dei Templari

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    Comincio questo nuovo 3d sul testo di Barbara Frale, L'ultima Battaglia dei Templari, edito da Viella Editrice, 2001, regalatomi da una collega prima della mia partenza dal capoluogo emiliano, causa lavoro.
    Questa nuova discussione vuole integrare quella che ha avuto come fonte bibliografica il Demurger.


    Il 1294 fu un anno cruciale per la storia della Chiesa. Il 13 dicembre papa Celestino V aveva solennemente abdicato dopo un pontificato durato solo 5 mesi e 9 giorni. Pietro da Morrone, il suo nome al secolo, era stato prescelto in reazione alla politica nepotistica del suo predecessore Niccolò IV (che aveva enormemente accresciuto la potenza e il prestigio dei Colonna) nel romitaggio della grotta di Sant'Onofrio. Proveniva da una famiglia contadina ed era il penultimo di 11 figli; la sua predisposizione alla vita austera ed umile lo faceva considerare un uomo in odore di santità.
    Il collegio cardinalizio, prima della sua elezione era fortemente diviso sia per le correnti interne, sia per un'epidemia che colpì Roma, sia, infine, per l'insorgere di disordini nell'Urbe; sta di fatto che dopo la morte del suo predecessore trascorsero quasi due anni prima di scegliere un papa che potesse ascendere al soglio di Pietro. Infine fu scelto Pietro, sulla scia del movimento intrapreso da Gioacchino da Fiore agli inizi del secolo, che auspicava il ritorno della Chiesa all'antica purezza degli albori; in essa avrebbe trionfato la spiritualità, la pace e il monachesimo. E l'unico che allora poteva incarnare questo anelito di riforma era proprio Pietro da Morrone.
    L'elezione era stata caldeggiata sia dagli Spirituali, il gruppo più radicale dei francescani che si "opponeva" ai Conventuali, ritenuti di interpretare la regola di San Francesco in maniera troppo lassista, sia da Caro II d'Angiò, favorevole sia agli Spirituali, sia all'elezione di Pietro da Morrone.
    Ma ben presto ci si rese conto della debole personalità do Celestino. Il nuovo papa se non era secondo a nessuno in fatto di austerità, umiltà e voglia di riformare la Chiesa facendola tornare agli albori, dal punto di vista politico e diplomatico non aveva quella esperienza e quella scaltrezza che si addicono ad un "capo di stato"; lo stesso Carlo d'Angiò si rese conto che ormai Celestino era divenuto quasi un peso per la Chiesa.
    Subito dopo la sua abdicazione il collegio cardinalizio si riunì con una certa celerità e dopo soli 10 giorni fu eletto al soglio di Pietro Benedetto Caetani, appartenente ad una delle più nobili e potenti famiglie della campagna romana. La scelta era ricaduta su di lui anche per reazione all'orientamento che aveva preso la politica di Celestino, troppo vicono alle pretese di Carlo II d'Angiò; non a caso Pietro da Morrone, durante il suo pontificato, influenzato dall'onnipresente presenza angioina, aveva nominato diversi cardinali di nazionalità francese, con una diretta o indiretta investitura del re Carlo. Perfino i due cardinali Colonna si affrettarono a dare il proprio voto all'elezione onde evitare che il nuovo papa potesse essere di chiara inspirazione francese. Questo fu anche uno dei motivi per cui il re di Francia attaccò la curia romana sulla nomina del nuovo papa.
    Prima di dichiarare la propria abdicazione, Celestino si consultò con i più insigni giuristi e canonisti del tempo.
    Gli Spirituali erano anch'essi divisi: mentre Pietro Giovanni Olivi la riteneva possibile sulla base del Decreto di Graziano, distinguendo tra l'ordinazione pontificale, indelebile, e la giurisdizione, cui era possibile rinunciare, Ubertino da Casale condannava la rinuncia del papa considerandola il frutto di un grave misfatto di Bonifacio VIII.
    Questi, divenuto pontefice, avrebbe lasciato libero Pietro di tornare al suo romitaggio a Sulmona, ma temendo che i suoi nemici potessero circuirlo inducendolo a revocare l'abdicazione, il nuovo papa lo tenne presso la Curia sotto stretta sorveglianza.
    Pietro riuscì a fuggire raggiungendo la Puglia dove fu assistito e nascosto dagli Spirituali; onde evitare che questo fatto potesse riaccendere le liti con i Conventuali, lo invitarono nuovamente a fuggire e raggiungere la Grecia. Ma presso Vieste il balivo del re Carlo II lo raggiunse e lo arrestò, consegnandolo nuovamente a papa Bonifacio. Abitò presso la casa di questi due mesi ad Anagni in regime di arresti domiciliari. Poi fu condotto presso il castello di Fumone dove visse ancora 9 mesi in un regime semidetentivo. Morì nel maggio 1296 all'età di 87 anni molto probabilmente per un'ulcera infetta non curata; questo fu anche preso come motivo da parte dei nemici per accusarlo della morte del suo predecessore; tali accuse, in fatti, in seguito sarebbero state usate contro di lui.
    Quando nel 1294 Jacques de Molay, gran maestro dell'Ordine del Tempio, si era recato a Roma, si presentò al cospetto del nuovo pontefice a rendergli omaggio. Erano due personalità molto simili e consapevoli del prestigio che ciascuno di essi aveva: era giocoforza che dovessero incontrarsi, e infatti avvenne ciò.
    L'Ordine del Tempio era stato costituito grazie a un cavaliere francese originario della Champagne, Hugues de Payns, che aveva combattuto durante la prima crociata; per la costituzione della confraternita si era appoggiato al re di Gerusalemme, Baldovino II, che non aveva nascosto l'intenzione di regolarizzare questo nuovo ordine, facendolo diventare un'organizzazione militare. Questo anche per un motivo di natura squisitamente politico, per controbilanciare le mire feudalistiche dei signorotti locali.
    Il nuovo Ordine fu istituzionalizzato nel 1129 durante il concilio di Troyes: divenne un ordine monastico-cavalleresco (quindi di natura militare) deputato alla salvaguardia e alla difesa della Terrasanta. La sede fu fissata presso la moschea di Al-Aqsà, dove anticamente sorgeva il Tempio di Salomone: da ciò derivò il nome di Militia Salomonica Christi, poi in seguito Militia Templi, e quindi Templarii.
    Ma al momento della sua nascita, sorsero già i primi contrasti in seno alla Chiesa sulla legittimità di un'istituzione dedita alla guerra, e quindi all'omicidio. Tutti i dissidi e i contrasti vennero soliti con l'intervento di Bernardo di Chiaravalle che, operando un netto paragone con la cavalleria laica notoriamente dissoluta, sottolineava che questa nuova milizia, abbracciando i voti di castità, povertà ed obbedienza, poteva costituire un valido strumento per frenare l'espansionismo dei saraceni in Medio Oriente e restituire alla cristianità i Luoghi Santi. Come già detto in altra sede, con l'intervento di S. Bernardo si assegnò la patente di legittimità all'Ordine che gi consentisse di uccidere per respingere la violenza degli infedeli che martirizzavano i cristiani in Terrasanta.
    Sul piano religioso i Templari furono legati per un certo periodo al patriarca di Gerusalemme; ricevettero l'ordinario dei canonici regolari del Santo Sepolcro sul quale organizzarono la propria vita liturgica.
    I frati erano suddivisi in due categorie: i cavalieri propriamente detti (milites), appartenenti a famiglie di rango nobile o comunque cavalleresco, indossavano candide vesti simbolo della purezza dell'Ordine; i frati sergenti (servientes) che non avevano pari nobili origini, la cui veste era di color bruno. Durante il capitolo generale dell'Ordine che si tenne il 24 aprile 1147, papa Eugenio III autorizzò i cavalieri a portare una croce rossa all'altezza della spalla destra per sottolineare la loro missione di combattenti per la Sacra Croce.
    Ad esso fecero parte anche importanti personaggi della nobiltà europea come Folco V d'Angiò e Hugues conte di Champagne. Dal punto di vista territoriale le loro commende si estendevano in ogni dove d'Europa, dal Portogallo all'Armenia, dalla Sicilia alla Scozia; erano suddivisi in commende in Occidente che a loro volta si raggruppavano in province. Le loro abilità diplomatiche erano richieste presso diversi stati europei, in primis in Francia e la curia romana. Ben presto divennero un ordine svincolato da qualsiasi giurisdizione, sia laica che ecclesiastica, dovendo rispondere del loro operato direttamente al pontefice.
    Il forte spirito d'iniziativa, unito ad un coordinamento in battaglia e alla ferrea disciplina resero l'Ordine una delle organizzazioni militari meglio addestrate fra il XII e XIII secolo, e non è un caso che diversi stati europei chiedevano il loro ausilio o comunque modellavano i loro esercito sull'esempio templare.
    Grazie, poi, ai lasciti e alle donazioni di benefattori laici che volevano o entrare direttamente nell'Ordine, o come "fratelli spirituali" ben presto la confraternita raggiunse un'influenza territoriale senza paragoni.
    Le case templari, riunite in commende, erano organizzate in strutture gerarchiche superiori chiamate province, rette da un responsabile generale, chiamato visitatore che rendeva conto solo al gran maestro. Durante il corso del XII secolo le magioni occidentali erano deputate principalmente alla produzione, destinate a raccogliere il necessario delle risorse destinate poi in Oriente ed impiegate per supportare economicamente l'azione militare.
     
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    Nel 1187 il sultano Saladino inferse una dura sconfitta egli eserciti cristiani presso Hattin: il regno di Gerusalemme fu conquistato e gli stati cristiani non riuscirono più a riconquistare la città Santa. Parte della responsabilità della disfatta fu attribuita al gran maestro Gérard de Ridefort e alla sua tattica aggressiva durante l'ingaggio della battaglia. lentamente, ma inesorabilmente, la presenza militare in Terrasanta andò ridimensionandosi; la capitale del regno di Gerusalemme fu portata più a Nord a San Giovanni d'Acri. Solo temporaneamente nel 1229 Federico II riuscì a stipulare un trattato di pace, in verità molto discusso, con il sultano d'Egitto al-Kamil, ma si trattò solo di un episodio isolato; nel 1244 il contingente cristiano subì un'altra terribile sconfitta a La Forbie, che segnò inesorabilmente le sorti del regno.
    Piovvero critiche da ogni parte, e le accuse principali mosse all'Ordine furono la pigrizia, la superbia, l'avarizia che col passar del tempo avevano allignati tra i componenti dell'Ordine; anche all'interno di esso sorsero i primi dissapori , complice la forte demotivazione in cui versavano i Templari a seguito delle numerose sconfitte subite in battaglia. Ma anche i canonici regolari, il mondo ecclesiastico in genere criticava l'attività e l'opera del Tempio, invidiosi dei numerosi privilegi di cui esso godeva.
    Nel corso del XIII secolo, in concomitanza con un periodo di stasi delle guerre in Terrasanta, i Templari si secolarizzarono, impiegando le proprie attività nel settore economico-finanziario di cui erano abili esperti. Si pensi che il Tempio di Parigi era sede del tesoro reale ad essi affidato dal re in persona per la notoria perizia contabile e per la proverbiale onestà dei rappresentanti dell'Ordine.
    I cavalieri erano richiesti anche dai più importanti regni europei per la sottile arte della diplomazie che essi erano riusciti a perfezionare durante il periodo di guerra nei Luoghi Santi. Nella seconda metà del XIII secolo la presenza cristiana in Terrasanta fu ulteriormente ridotta con la controffensiva operata dal sultano Baibars che ridusse la presenza dei Crociati nei Luoghi Santi ad una sottile fascia costiera; fu per questo che nel 1274, durante il concilio di Lione, fu avanzata la proposta di fondere i due ordini, quello degli Ospedalieri e dei Templari in un unico ordine.
    Nel 1291 il gran maestro dell'Ordine, Guillaume de Beaujeu, morì eroicamente nella strenua difesa di Acri insieme ai suoi confratelli; Templari ed Ospedalieri portarono la sede dei loro rispettivi ordini a Cipro, dove già in epoca antecedente vi era un cospicuo numero di Templari; i Teutonici preferirono dislocarsi alla conquista dei territori baltici per portare la fede cristiana tra le popolazioni ancora pagane (prussi, lituani).
    La fine del regno di Gerusalemme rinfocolò le critiche verso gli Ordini, tanto che nel 1305, due anni prima l'arresto di massa dei templari, papa Clemente V invitò i due gran maestri, dei Templari e degli Ospedalieri, a pronunciarsi sull'ipotesi di fusione.
    Jacques de Molay, gran maestro dell'Ordine, come avevano fatto anni addietro i suoi predecessori, manifestò le sue riserve: prima di tutto perché non si era capito ancora a chi dovesse essere attribuita la primazia; se fosse stata assegnata agli Ospedalieri, che avevano una regola meno austera e rigida rispetto a quella del Tempio, avrebbe sminuito il fine e la funzione precipua dei cavalieri Templari; inoltre l'Ospedale era nato con finalità prettamente e specificamente assistenziali, e solo successivamente militari: come avrebbe potuto garantire la difesa dei pellegrini che si recavano in Terrasanta? Inoltre un'eventuale fusione avrebbe determinato invidie e gelosie tra i dignitari dell'uno e dell'altro ordine su chi avesse avuto il primato, con la conseguenza di ritardare l'opera di intervento in Terrasanta.
    De Molay contrastò a spada tratta l'idea di una fusione, adducendo i motivi che un'eventuale unione con gli Ospedalieri avrebbe sminuito la funzione prettamente militare sulla base della quale era stato fondato l'Ordine templare; in un periodo di infiacchimento dei cavalieri, era necessario prendere nuovamente la spada in mano, e l'unione con un Ordine nato per fini peculiarmente assistenziali, ne avrebbe ridotto l'impatto e la portata.
    Al rango di milites appartenevano rampolli dell'aristocrazia europea che, stanchi di una vita agiata, si erano dedicati a svolgere quello per cui erano nati, ma in nome della Fede. Ben presto anche i servientes (sergenti) riuscurono ad ottenere posizioni di prestigio all'interno dell'Ordine anche per il fatto che necessitava un gruppo ben istruito nell'ambito economico-finanziario che potesse dare garanzie di onestà e perizia; e di ciò si servì sia l'Ordine in quanto tale, sia i regnanti europei.
    Ben presto molti rampolli di feudatari entrarono nell'Ordine, e si sviluppò ben presto la pratica di assegnare incarichi apicali all'interno di una commenda o ad una provincia ai personaggi della nobiltà locale o territoriale più in vista; per limitare quest'uso, papa Alessandro IV pose un freno alle nomine "suggerite" da principi, re, duchi, per avere una maggiore o minore influenza su quella commenda o quella provincia; essendo stato disatteso quest'ammonimento, il suo successore, Clemente IV, lo reiterò, quantomeno se non per eliminare, per ridurre drasticamente questa pratica.
    Luigi IX aveva chiesto insistentemente a papa Urbano IV che la carica rimasta vacante di Magister Franciae andasse al cavaliere Amaury de la Roche che precedentemente era stato Commendatore di Outremer. Il papa aveva dovuto intercedere col gran maestro per avallare la nomina di de la Roche. Il 14 marzo 1264 papa Urbano fu ancora più esplicito nell'asserire che re Luigi era stato perentorio nel voler affidare la carica a de La Roche; per convincere i dignitari del Tempio scrisse una lettera al patriarca di Gerusalemme affinché venisse vinto ogni ostacolo alla nomina del favorito del re; come si può immaginare, alla fine questi ebbe la meglio.
    Anche in Inghilterra la carica di precettore era affidata ad un membro della famiglia dei de Gonneville, che da almeno due generazioni rivestivano l'ufficio di camerieri personali del re.
    Molti templari cominciavano la loro attività nel proprio luogo d'origine ma alcuni di essi riuscivano a scalare i gradi gerarchici per divenire dignitari di vertice all'interno del Tempio. A questa ristretta cerchia di cavalieri apparteneva la famiglia Pérraud, gruppo familiare aristocratico che si era radicato nella zona sud-orientale della Francia. Hubert de Pérraudentrò nel Tempio probabilmente prima del 1250, e il suo primo incarico fu di un certo livello, diventando responsabile della balivia del Ponthieu; dal 1261 al 1264 ottenne l'incarico di Magister Franciae, cui seguirono quello di precettore d'Inghilterra e Aquitania nel 1266, culminando la sua carriera come supervisore del Tempio in auqlità di visitator.
    Nel 1263 si trovava a Lione per celebrare l'ingresso di suo nipote Hugues, figlio di suo fratello, nell'Ordine, celebrazione avvenuta il giorno di epifania. Anche Hugues ebbe una carriera sfolgorante: si pensi che divenne, come suo zio, precettore di Francia (carica richiesta dalla corona di Francia), per poi ottenere la responsabilità dell'Occidente col titolo di visitator cismarinus. Provvide, infine, a far entrare altri suoi due nipoti nell'Ordine, cui conferì la precettoria della magione di Chalons-sur-Saone, molto vicina al suo feudo d'origine.
    A differenza di questi, che costituivano l'élite dell'Ordine, altri, una volta investiti del'abito templare, furono mandati direttamente al fronte a combattere gli infedeli; tra questi c'era l'ultimo gran maestro, Jacques de Molay.
    Questi è stato più volte dipinto come un uomo mediocre, scarsamente dotato di personalità, astuzia e coraggio; ma le fonti ci dicono tutt'altro.
    Nato da una famiglia di rango cavalleresco nella Franca Contea, entro nell'Ordine a circa 20 anni nel 1265. La sua cerimonia d'ingresso venne officiata dai due massimi esponenti dell'Ordine, il visitatore Hibert de Pérraud e da Amaury de la Roche, favorito del re e prossimo Magister Franciae. Sembra strano che due massimi dignitari si muovessero dalle loro sedi, il Tempio di Parigi, per accogliere nell'Ordine un nuovo cavaliere. Vero è che il visitatore era quello di supervisionare le magioni occidentali ed è possibile che si trovasse in zona nell'esercizio delle sue funzioni ispettive; ma la presenza di de la Roche ci fa pensare che l'investitura dei de Molay non fosse cosa da poco. Il casato dei de la Roche distava a poche miglia sia da quello di Molay che dei Pérraud e non è escluso che la famiglia Molay fosse in qualche modo imparentata con quella dei suoi vicini: il che spiegherebbe perché si mossero i due alti dignitari templari.
    Una volta vestito del suo abito e accolto nel Tempio, de Molay fu inviato in Medio Oriente dove tra il 1272 e il 1282 entrò a far parte del couvent del gran maestro Guillaume de Beaujeu. Da sottolineare che il couvent era una sorta di consiglio di gabinetto del gran maestro, dove venivano prese le decisioni più importanti da punto di vista amministrativo e politico.
    Un'altra testimonianza ci mostra il giovane de Molay durante una cerimonia d'ingresso in Acri insieme al gran maestro, al precettore di Terrasanta, a quello d'Acri, al Drappiere e a uno dei più intimi consiglieri del gran maestro; a dimostrazione che la figura di de Molay non è un personaggio di secondo piano all'interno del'Ordine.
     
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    Alla morte eroica di Beaujeu seguì un breve interregno di Thibaut Gaudin durato poco più di un anno. Durante il procedimento per eleggere il nuovo gran maestro sorsero contrasti in seno al couvent che per poco non ne determinarono una spaccatura al suo seno. L'ala maggioritaria era rappresentata da Hugues de Pérraud, a quel tempo precettore di Francia; quella minoritaria era capitanata da Jacques de Molay, che aveva assunto in via ufficiosa il ruolo di Gran Comandante dopo la morte di Gaudin. Alla fina si raggiunse a un accordo con il quale il secondo giurò solennemente davanti al gran maestro dell'Ospedale e al nobile Othon de Grandson che non voleva diventare gran maestro e che consentiva all'elezione di Pérraud; in cambio la maggioranza ratificò il ruolo di Gran Comandante che de Molay, di fatto, deteneva.
    Pérraud non era mai stato in Oriente, ma dal canto suo aveva acquisito una capacità politica e diplomatica grazie alla sua esperienza trentennale in territorio francese; e non a caso era ben visto anche dalla corona. Dal canto suo era d'uso che i gran maestri avessero una certa esperienza sul campo di battaglia, in Oriente, ma Pérraud, come scritto, non vi era mai stato.
    C'è da sottolineare il fatto che ai cavalieri non era permesso esercitarsi in attività ludiche come i tornei simulando scene di battaglie; questo avveniva solo casualmente; e allora che dire di questo nuovo gran maestro che non aveva mai ingaggiato una battagli ma era stato sempre nelle retrovie in Occidente? Come avrebbe potuto aizzare i suoi durante i combattimenti e i momenti di pericolo? A differenza di lui, de Molay aveva preso parte alla caduta di San Giovanni d'Acri, e forse aveva assistito come testimone ocualre anche alla morte del suo comandante Beaujeu, ferito mortalmente, tratto da cavallo dai suoi e poco dopo spirato davanti all'altare del tempio in San Giovanni.
    Dopo la morte del gran maestro de Molay assunse, di fatto, il titolo di Gran Comandante, un incarico interinale fin quando non fosse stato nominato il nuovo capo del'Ordine. Sembrava naturale che questa qualifica gli permettesse di lì a poco di assurgere al titolo di gran maestro.
    Durante gli anni sessanta-settanta del XIII secolo figura un dignitario che assunse ruoli importanti all0interno dell'Ordine, il cui cognome ricordava molto quello di de Molay; ciò non deve meravigliare in quanto era cosa comune che molti cognomi fossero traslitterati e non solo quelli di semplici cavalieri, ma anche quelli di importanti dignitari. E' molto probabile, quindi, che il personaggio di cui si tratta sia in effetti un parente prossimo dell'ultimo gran maestro, il che spiegherebbe anche la fulgida carriera percorsa da de Molay durante la sua esistenza.
    Tutto ciò premesso si può affermare che la figura di de Molay rinasca riabilitata: era un personaggio austero, capace di parlare in modo convincente ai suoi, aveva appoggi soprattutto verso il papa. In particolare i templari veneravano la figura del pontefice che essi definivano nostro Padre l'Apostolo, inteso come vero successore di Pietro. E la stessa fiducia e rispetto riponeva Bonifacio VIII nell'ordine e nel suo gran maestro: in una visione teocratica della società, come era quella vagheggiata da papa Caetani, l'Ordine costituiva un valido strumento per realizzare i sui sogni di egemonia sul potere temporale. Non a caso chiese proprio all'ordine di finanziare una guerra contro i Colonna, suoi acerrimi nemici, chiedendo ai cavalieri di sborsare l'enorme cifra di 12.000 fiorini d'oro, una somma enorme per quei tempi! La stessa richiesta fu avanzata anche agli Ospedalieri, ma in una missiva datata 3 maggio 1298, il papa dichiara che la guerra contro i Colonna era stata finanziata soprattutto dai templari.
    A seguito di questo atto di fedeltà, i Templari ottennero diversi doni dal pontefice, non da ultima quella di installare una magione ad Anagni, suo quartier generale.
    Durante il processo a Bonifacio VIII, fu convocato in qualità di testimone a carico anche Hugues de Pérraud, che allora era precettore: egli confermò le accuse contro il papa, ma si limitò a sottoscrivere, insieme ad altri ecclesiastici di Francia, una cedola precompilata e confezionata dal re.
    D'altronde si riesce a comprendere la posizione del Pérraud se si pone mente al fatto che non era un uomo d'armi, ma di diplomazia; e questo era ben avvertito all'intero del couvent; una certa ala al'interno di essa addirittura premeva affinché la politica dell'Ordine non si rivolgesse più alla crociata e alla liberazione della Terrasanta, ma si potesse ottenere lo stesso risultato con la politica e la diplomazia.
    Ora si pine un'altra questione all'interno della nomina di Pérraud. Come scritto, ad essa parteciparono sia Othon de Grandson, uomo di spicco all'interno dell'Ordine, che aveva combattuto per il re d'Inghilterra guidando i cavalieri inglesi nella battaglia d'Acri nel 1291. Forse era presente alla nomina del nuovo gran maestro per boicottare l'elezione di de Molay, personaggio troppo rigido e vicino agli interessi dell'Ordine, a favore di Pérraud,più malleabile e influenzabile. Si è posto il dubbio che fosse proprio un "uomo" di Filippo il Bello: ne è prova il fatto che nel 1308 il re francese comincerà ad assegnare i beni del Tempio che avrebbe dovuto soltanto custodire, a persone di suo gradimento, e tra questi figura proprio Othon de Grandson, cui viene assegnata una rendita di 2.000 libbre annue su alcune proprietà templari.
    Anche la presenza del gran maestro ospedaliero non si riesce a comprendere, anche perché nella gestione interna l'Ordine aveva piena autonomia gestionale.
    Probabilmente Folques de Villaret, gran maestro dell'Ospedale, era più incline ad una possibilità di fusione; lo testimonia il fatto che nel 1305 Clemente V consultò i capi dei due ordini rispetto al progetto di crociata e all'ipotesi di unione; mentre de Molay rispose su entrambe le questioni poste, de Vilaret diede una soluzione solo sulla crociata.
    Questo silenzio sull'altro punto è forse dovuto ad un atteggiamento più accomodante verso la corona che caldeggiava fortemente il progetto; anche perché qualche anno prima il precedente gran maestro dell'Ospedale, Guillaume de Villaret aveva ben pensato do trasferire il quartier generale dell'Ordine in Francia.
    In conclusione, tutto fa pensare che la presenza di alcuni dignitari interni ed esterni all'Ordine templare avessero lo scopo di boicottare l'elezione del candidato che in quel momento sembrava essere più degno ad assumere il ruolo di capo, ma che per la ragion di Stato doveva essere sacrificato ad un uomo più incline e vicino alle posizioni della corona francese.
    Nel 1294 i sovrano francese Filippo il Bello attaccò la Guienna, territorio che giuridicamente era sottoposto al governo del sovrano inglese: quest'azione viene tradizionalmente considerata la scintilla che avrebbe acceso la guerra dei Cento anni. Alla metà del XIII secolo vi erano ancora 4 grandi feudi che erano sottratti alla sovranità del re di Francia: la Borgogna, la Bretagna, le Fiandre e la Guienna. Luigi IX era ruscito a trovare un equilibrio attraverso quella che fu definita la "soluzione feudale" col trattato di Parigi del 1259: il sovrano inglese rinunciò a Normandia, Maine, Angiò, Turenna e poitou, conservando, però, la Guienna, accresciuta di alcuni territori nel Limousin, Quercy, Périgord, Agenais e Saintonge, che avrebbe governato con il titolo di duca prestando omaggio al sovrano francese.
    L'intervento della Francia ruppe quest'equilibrio; non soltanto; adesso anche il conte di Fiandra, Guy de Dampierre, scendeva in campo a segutito della forte tassazione imposta da Filippo il Bello. Anche le Fiandre erano in rapporto di vassallaggio con la Francia, ma aveva stretti rapporti economico-commerciali con l'Inghilterra per via delle industrie che importavano lana grezza dall'Inghilterra; inoltre per sostentare la sua campagna contro a Guienna, Filippo aveva imposto un'aspra tassazione ai fiamminghi. Finalmente l'intervento di Bonifacio VII riuscì a ristabilire l'ordine tra i contendenti in lotta (20maggio 1303). A seguito di ciò il conte fiammingo si trovò isolato e questo consentì alle truppe francesi di dilagare in molte città delle Fiandre; per tutta risposta una rivolta scoppiata nel 1302 (mattine di Bruges) provocò il massacro di un gran numero di francesi ed il prolungarsi delle ostilità che si conclusero soltanto nel 1305.
    La guerra aveva piegato l'economia della Francia, che non disponeva di risorse finanziarie proprie; ecco perché nella politica di re Filippo fu presa la decisione di deprezzare di quasi 2/3 il valore della moneta, provocando malcontento fra la popolazione che insorse, inducendo il re a rinchiudersi insieme ai suoi dignitari e baroni nella fortezza della Torre del tempio di Parigi.
    Sia il padre del re, Filippo III, sia lo stesso Filippo avevano tentato, invano, con interventi solo marginali, di limitare la grande manomorte che l'Ordine stava acquisendo in Francia. Nel 1304, però, il sovrano si decise a riconfermare i beni posseduti dai Templari in Francia, ma probabilmente solo come contropartita alla deposizione di Bonifacio VIII rilasciata da Pérraud l'anno precedente.
    L'emergenza finanziaria determinò anche un grave conflitto col papato. Nel 1295, a seguito della grave crisi in cui versavano, i regni di Francia e Inghilterra imposero una speciale tassazione sui beni del clero; nel 1296 il papa emise la bolla Clericis laicos con la quale, senza far riferimento a casi o persone specifiche, lanciava l'interdetto contro coloro che gravassero il clero senza il permesso del pontefice.
    Con le altre due bolle Ineffabilis amoris e Etsi de statu il pontefice fermo restando il suo potere di sindacare la politica interna ed estera degli stati, affermava che questi potessero imporre una tassazione anche al clero quando il regno versasse in condizioni economico-finanziarie di emergenza.
    Ma un altro grave fatto sorse durante quel periodo, frutto delle rivalità tra la famiglia Caetani, cui apparteneva il pontefice, e quella dei Colonna.
    Il casus belli avvenna quando il 3 maggio 1297 il personaggio più in vista della famiglia Colonna, nipote del cardinale Giacomo e fratello del cardinale Pietro, rubò una cospicua somma di denaro che la famiglia Caetani stava trasportando da Anagni a Roma.
    Prontamente il pontefice convocò i due cardinali mediante un mandato di comparizione con l'intenzione di chieder loro se lui fosse il papa; i due non si presentarono. Ritiratisi a Lungezza, il 10 maggio scrissero un atto di protesta con cui accusavano il papa di aver ottenuto il soglio pontificale con la macchinazione e l'inganno.
     
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    Filippo il Bello concesse asilo ai due Colonna, promuovendo, nel contempo, tutta quella macchinazione politica finalizzata a dichiarare l'illegittimità dell'elezione papale e dichiararne, quindi, la deposizione.
    Di lì a poco Bonifacio emette le due bolle che passeranno alla storia come manifestazione del potere teocratico del pontefice.
    Con l'Ausculta Filii (5 dicembre 1301), secondo la quale era Dio stesso che aveva stabilito l'autorità della Chiesa super reges et regna e che di fatto il re di Francia, con la sua condotta si poneva al di fuori dell'ecumene cattolica; con la bolla Unam Sanctam al tempo stesso il papa non soltanto dichiarava la superiorità della Chiesa romana su qualsiasi altra Chiesa, ma asseriva fermamente il diritto e il dovere da parte del papa di poter e dover giudicare qualsiasi giurisdizione, financo quella sottoposta al potere civile.
    Per risposta re Filippo convocò gli Stati Generali, composti da prelati, baroni e rappresentanti della città; ma lo stesso Bonifacio proibì ai prelati francesi di parteciparvi; la risposta fu l'invio ad Anagni del consigliere del re, Guillaume de Nogaret, con il compito di portarlo in Francia e arrestarlo, causa l'illegittimità della sua elezione.
    Alla fine dell'estate 1303 fu emanata da Bonifacio la bolla Super Petri solio, con la quale il pontefice scomunicava re Filippo: il re non avrebbe più potuto fare atto di giurisdizione sovrana, i suoi sudditi e vassalli sarebbero stati liberati dal vincolo di fedeltà e obbedienza, tratti e alleanza stipulati da lui venivano di fato sciolti.
    La bolla fu formulata ma non ancora promulgata; avrebbe recato la data dell'8 settembre.
    Nella notte tra il 6 e 7 settembre, un gruppo di armati, composti da uomini del re di Francia, capitanati da Guillaume de Nogaret, e un ben più nutrito gruppo con a capo Sciarra Colonna, si presentò sotto le mura della città di Anagni.
    Il primo, consigliere del re di Francia, era un giurista ed era convinto che qualsiasi azione, anche quella che in apparenza poteva sembrare la più illecita, doveva essere sottoposta al crisma della legalità; il secondo, Sciarra Colonna, invece, sembrava più mosso dall'idea della vendetta personale contro il pontefice che da una vera e propria idea di illegittimità dell'elezione. Quando gli uomini dei Colonna si diedero al saccheggio non solo della città, ma del palazzo pontificio, il Nogaret venuto a sapere dei disordini scoppiati a causa dei facinorosi al seguito dei Colonna, si precipitò al fine di sedare gli scontri; la sua idea era quella che non venisse torto un capello al papa, in quanto sarebbe stato condotto in Francia e lì giudicato da un concilio appositamente riunito.
    Ma la popolazione locale, strettasi intorno al suo santo concittadino, ma anche per il timore che l'arresto del papa potesse ricadere sulla città, insorse a difesa del pontefice, che grazie a quest'eroico atto fu liberato.
    Il pontefice benedisse la città e promise il suo perdono che sembrò estendersi anche ai Colonna.
    Il 13 settembre una scorta armata fornita dalla potente famiglia degli Orsini scortò il papa entro le mura di Roma, dove morì l'11 ottobre seguente.
    Il Nogaret aveva compiuto a metà il suo proposito: non era riuscito a portare sano e salvo il pontefice a Parigi, ma era riuscito ad impedire che la bolla di scomunica venisse promulgata e quindi pubblicata.
    Papa Bonifacio è stato sempre osteggiato da certa critica storica, particolarmente per quanto riguarda i suoi vizi umani; ultimamente, la recente storiografia ha cercato di riabilitarne la figura.
    Ad ogni modo qualche anno prima gli Spirituali, grazie al forte influsso che avevano sul pontefice Celestino V, erano riusciti a far riconoscere una loro congregazione (i pauperes heremitae domini Celestini) che pur vivendo secondo la regola del loro fondatore S. Francesco, erano più vicini al modus vivendi degli Spirituali francescani. Una volta elevato agli altari di Pietro, Bonifacio VIII cassò questa disposizione di Celestino V, suo predecessore. In una delle sue maggiori opere, l'Arbor vitae cricifixae, Ubertino paragona Bonifacio alla "mala bestia" dell'Apocalisse, estendendo la condanna anche ai suoi successori, quali Benedetto XI e Clemente V. Diversamente, Ubertino da un giudizio principalmente positivo sulla figura di Filippo il Bello.
    Il 27 ottobre 1303 fu eletto nuovo pontefice Niccolò Boccasini, cl nome di Benedetto XI; era stato nominato cardinale dal suo predecessore nel 1298 ed aveva aiutato Bonifacio nella sua politica di pacificazione tra Francia ed Inghilterra. Anche il fatto di aver assunto il nome del su predecessore dimostra la forte fedeltà e stima nei confronti del papa defunto.
    Da Bonifacio VIII il nuovo papa ereditò oltre i problemi politici anche i nemici, in primis il re di Francia e la famiglia Colonna. Con la bolla Tunc navis Petri, se da un lato fece cadere tutte le accuse mosse contro il re francese, dall'altro non accolse la sua richiesta di addossare le responsabilità dell'oltraggio di Anagni allo stesso Bonifacio; anzi, con un'abile mossa, Benedetto addebitò la colpa a Nogaret.
    Il papa morì il 7 luglio 1304 dopo pochi mesi di pontificato a seguito di dissenteria; non v'era chi ha insinuato che dietro la sua morte dovuta ad un'indigestione di fichi vi era la longa manus del Nogaret o dei Colonna. Ad ogni modo al suo posto fu eletto Bertrand de Got, che prenderà il nome di Clemente V e che sarà l'antesignano del periodo della Chiesa di Roma che va sotto il nome di "cattività avignonese".
    Ritornando a Re Filippo, questi era assurto al soglio reale nell'ottobre 1285 quando la Francia era al culmine di quel processo di centralizzazione e burocratizzazione che era cominciato sotto Filippo II Augusto ed era proseguito con Luigi IX il Santo.
    Si dubitò molto della sua forte personalità: si pensava che tutte le sue decisioni più importanti venissero prese dai suoi più fidi collaboratori. Tra questi Pierre Flote, Guardasigilli e capo della cancelleria fino alla sua morte avvenuta nel 1302 durante le "mattine di Bruges".
    L'astro nascente di, a questo punto, si manifestò, tanto che nel 1307 fu nominato nuovo Guardasigilli. Questi morì nel 1313 ma già nel 1310 il suo astro era in declino per i favori che il sovrano stava manifestando per il suo nuovo favoriti, Enguerrand de Marigny.
    Il fatto che il sovrano di Francia si avvalesse ora di abili e valenti giuristi invece che di rappresentanti della nobiltà dimostra come le cose stessero ormai cambiando anche nella Francia dell'epoca. Invece che fidarsi di una nobiltà riottosa che tendeva sempre più all'autonomia, o di un clero che risultava pur sempre legato alla Chiesa di Roma, adesso Filippo per le sue decisioni più importanti ricorreva alla convocazione dei cd. Stati generali, formati dai rappresentanti della nobiltà, del clero e delle città: in questo modo sollecitava quest'organo ad avallare le decisioni rege, quantomeno quelle più importanti.
    Inoltre Filippo il Bello, secondo uno studioso, a differenza dei sovrani degli altri stati europei, si sentiva investito del ruolo e della funzione di difensore della cristianità (ricordiamo che il titolo di Defensor Fidei fu attribuito dal papa a Enrico VIII d'Inghilterra prima del famoso scisma anglicano, n.d.f.); ciò derivava (sempre secondo tale studioso) dal fatto che il suo antenato Clodoveo era stato battezzato non con un normale crisma, ma con l'olio santo portato da una colomba e portato direttamente da Dio; da qui il ruolo e la funzione speciale che avevano i discendenti del sovrano merovingio (tra cui carolingi e capetingi, cui apparteneva Filippo).
    Ad ogni modo la figura di Filippo è stata molto discussa e diverse ne sono state le interpretazioni: vi è chi ha visto in lui una persona vuota e scialba, succube totalmente dei suoi consiglieri e incapace di prendere una qualsiasi decisione; altri, invece, ritengono che possedesse una forte personalità fino alla fine.
    Interessante sono le argomentazioni addotte dal Bautier che ritiene che re Filippo fu pienamente consapevole delle sue azioni fino al 1311; basti pensare che già per la firma dell'ordine di arresto dei cavalieri del Tempio, il sigillo apposto in calce al decreto fu quello del guardasigilli Nogaret.
    In effetti leggendo anche gli atti giudiziari di Filippo negli ultimi anni del suo regno, non può non ravvisarsi uno stile che si rifaceva più alle aule dei tribunali, ad un fine giurista, che ad una personaggio profondamente religioso, ma anche fortemente irascibile e volitivo qual era re Filippo.
    Vari sono stati gli studiosi che nel corso dei secoli si sono interessati alla vicenda del tempio, e alla tragica fine subita dall'ultimo gran maestro sul rogo; a partire dal XVIII secolo cominciano i grandi studi storici sulla fine del Tempio che sfoceranno alla fine dell'Ottocento con gli studi deò grande storico Jules Michelet e l'edizione delle due maggiori inchieste tenute a Parigi nel 1397 e nel triennio 1309-1311.
    Una pietra miliare è rappresentata dall'opera The trial of the Templars pubblicato nel 1978 da Malcom Barber, un libro che anche nei decenni a venire costituirà un punto di riferimento per tutti gli studiosi dell'era templare. Lo storico asserisce che non vi fosse nulla di illecito dietro le accuse mosse da Filippo il Bello e i suoi giuristi (v. Nogaret), e che l'unico scopo del sovrano fosse quello di rimpinguare le esigue casse statali a seguito della crisi economica e finanziaria che aveva colpito la Francia. Ma l'autore aggiunge che qualcosa di vero alle accuse mosse all'Ordine vi fosse.
    Un altro grande studioso alla metà degli anni ottanta pubblicò l'opera Vie et mort de l'ordre du Temple, giungendo alle medesime conclusioni riportate dal Barber; anche lui, ad ogni modo, ritiene che qualche dubbio sulle strane pratiche condotte dai frati dell'Ordine vi fosse, ma le attribuisce, più che altro, allo spirito goliardico di alcuni rappresentanti del Tempio, più che a comportamenti eretici, illeciti o comunque contrari all'etica cristiana.
    Infine Peter Partner nel suo The Murdered Magicians: The Templars and their Myth, pone l'accento sulle pratiche esoteriche all0interno del Tempio, pratiche che sarebbero state oggetto di speculazione da parte della letteratura romantica vicina ai movimenti massonici. Come ritenuto dal Demurger, anche il Partner ritiene che certi riti di iniziazione "degradati" fossero il frutto di tradizioni goliardiche che sarebbe stato opportuno analizzare anche alla luce di studi antropologici e sociologici.
    Ma tornando all'analisi storica, secondo lo studioso sir Steven Runciman la caduta di Acri era il risultato dall'abbandono e dal disinteresse dell'Occidente per la liberazione della Terrasanta.
    Prima che fosse perduto l'ultimo avamposto cristiana nei territori contesi, papa Niccolò IV aveva spinto per un'alleanza con il re di Persi, l'ilkhan Arghun: questi in campo religioso era eclettico, vicino al buddismo, ma affiancato da validi collaboratori ebrei e da una stretta amicizia con il vescovo nestoriano Mar Yahbhallaha.
    Nel 1285 il re Argun aveva inviato una missiva a papa Onorio IV per proporgli un comune attacco ai Luoghi Santi per liberare quei territori dal giogo musulmano; ma non ne aveva ricevuto alcuna risposta. Due anni dopo inviò un'ambasceria con a capo Rabban Sauma, amico del vescovo nestoriano Mar Yahbhallaha al fine di consultare i vari monarchi europei; fu ricevuto dapprima a Costantinopoli dall'imperatore Andronico, poi raggiunse Napoli via Roma ed infine giunse a Roma. Con grande stupore apprese che il papa era morto e che di lì a poco si sarebbe riunito il conclave per l'elezione del nuovo pontefice. Ma con sua maggiore meraviglia si rese conto che Roma non sapeva alcunché della diffusione del cristianesimo nei territori mongoli e gi stessi cardinali si scandalizzarono del fatto che Rabban Sauma servisse un signore pagano. In conclusione non solo deviarono il discorso dal campo politico a quello religioso, ma si puntarono l'attenzione sulla superiorità della religione cristiana rispetto quella persiana.
    Rabban si recò a pregare nelle più importanti chiese di Roma pi partì per Genova dove gli fu tributata un'accoglienza migliore. Ma fu solo presso la corte di Filippo il Bello che gli furono tributati i più grandi onori; si recò alla Sorbona e rimase impressionato dalle reliquie fatte raccogliere da San Luigi. Si accomiatò con la promessa da parte del re di raccogliere un forte esercito che lui stesso avrebbe guidata per la liberazione di Gerusalemme, e a riprova delle sue buone intenzioni nominò un ambasciatore preso l'ilkhan dei mongoli al fine di fissare con maggior precisioni le date e i tempi per la spedizione nei Luoghi Santi. A Bordeaux Rabban incontrò anche Edoardo I d'Inghilterra che già da tempo aveva manifestato la volontà di federarsi con i mongoli per scacciare i musulmani dalla Terrasanta. Ma quando si trattò di fissare la data e le modalità della spedizione il sovrano si mostrò alquanto vago.
    Nel 1288 fu eletto papa Niccolò IV e una delle sue prime iniziative fu quella di incontrare l'ambasciatore mongolo. Ne scaturì una solida alleanza, ma d'intenti, in quanto entrambi erano consapevoli che senza l'iniziativa concreta dei sovrani europei i propositi rimanevano soltanto tali.
    Poco dopo la Pasqua del 1289 Arghun inviò delle lettere al papa, ai re d Francia e d'Inghilterra: anticipava loro che nel gennaio 1291 alla volta della Siria e chiedeva delle truppe ausiliarie per riconquistare Gerusalemme; nel caso di esito positivo della spedizione la città santa sarebbe stata ceduta al re di Francia. Tra le altre cose, il re di Persia avrebbe fatto entrare nel conflitto anche il re di Georgia oltre 20-30.000 cavalieri ed abbondanti vettovaglie per gli eserciti cristiani che avrebbero combattuto in Medio Oriente. Una missiva dello stesso tenore fu inviata a re Edoardo I che espresse il suo plauso per le buone intenzioni ma non prese nessuna decisione concreta. Prima che l'Occidente decidesse sul da farsi, l'Outremer fu perduta mentre il re di Persia morì; il suo successore, Ghazzan, allevato da madre cristiana, politicamente fece scelte diverse da quelle del suo predecessore, addirittura dichiarando l'Islam religione di Stato.
    Nonostante verso la fine del duecento diversi intellettuali avessero abbracciato l'idea di bandire una nuova Crociata per la liberazione della Terrasanta, la possibilità di far entrare la Persia nell'orbita cristiana non venne perduta; non giunsero più ambascerie mongole in Occidente.
    Con Clemente V il progetto ritornò in auge. In particolare i Francia si era rifugiato il principe armeno Hethum che nel suo libro Flos historiarum terrae orientis pubblicato nel 1307, raccomandava una duplice spedizione via mare che avesse le proprie basi d'appoggio a Cipro e in Armenia, propugnando, inoltre, una stretta collaborazione con gli armeni e i mongoli.
    Il nuovo pontefice Clemente V incaricò i gran maestri dell'Ospedale e del tempio di elaborare una tattica d'attacco per debellare le forze musulmane in medio oriente. Gli Ospedalieri presentarono due memoriali nei quali propugnavano più che uno scontro diretto, una guerra di logoramento con continui blitz contro le forze avversarie; inoltre incaricavano il papa di mantenere per cinque anni una flotta tra le 25 e le 60 galere impegnate per 8 mesi l'anno a costituire un blocco navale contro i rifornimenti diretti verso il sultanato d'Egitto, allo scopo di danneggiarne l'economia; un contingente di 1000 cavalieri e 4000 balestrieri avrebbe fatto continue incursioni lungo sulle coste. Successivamente sarebbe entrato in scena un poderoso esercito che avrebbe proceduto alla riconquista dei territori occupati dai turchi; il piano puntava sull'alleanza con i mongoli e gli armeni, questi ultimi interessati più che mai a sottrarre ai musulmani d'Egitto il monopolio dei commerci con l'Europa e le Indie.
    Il piano non piacque a re Filippo, in quanto alla Francia era stata tolta la leadership delle operazioni militari; per tutta risposta il sovrano negò il sussidio di 100.000 fiorini d'oro per il quale si era già precedentemente impegnato. Anche Giacomo II d'Aragona non accolse favorevolmente il piano degli Ospedalieri, ritenuto come uno strumento dell'ordine per la riconquista di Rodi e del Dodecaneso.
    Carlo II, invece, si mostrò propenso ad attuare il piano dell'Ospedale, ma il grosso problema era rappresentato dalle repubbliche marinare, poco propense, con l'attuazione del piano, a sacrificare i propri interessi economici e commerciali nel Mediterraneo.
     
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    L'idea di de Molay sulla crociata era parzialmente diversa da quella degli Ospedalieri. Egli riteneva che fosse cruciale il blocco dei rifornimenti che le repubbliche marinare prestavano ai musulmani a volte anche con navi pesantemente armate; e per far ciò auspicava che il pontefice usasse le armi della scomunica e dell'anatema nei confronti di quegli stati che anche solo indirettamente portassero ausilio agli infedeli.
    Anch'egli riteneva che fosse indispensabile un'attività di polizia marittima che pattugliasse i mari per bloccare i rifornimenti all'Egitto, composta da circa 10 galere. A capo della flotta sarebbe stato posto Rogeron de Lauria, figlio del famoso ammiraglio Ruggero che combatté durante i Vespri siciliani al servizio di Pietro III d'Aragona.
    De Molay assegnò alle repubbliche marinare il compito di trasbordare i crociati in Terrasanta stimandone il numero in 12-15000 cavalieri e 5000 fanti. In quel contesto l'ilkhan di Persia aveva inviato presso papa Clemente V un'ennesima ambasceria presso la Curia a Poitiers con una poderosa offerta di aiuti militari nel caso si fosse finalmente deciso il piano della crociata cristiano-mongola.
    Il progetto di de Molay entra in contrasto con quello degli Ospedalieri allorquando non ritiene saggio effettuare dei continui attacchi aventi come testa di pinte l'Armenia: prima di tutto perché questa si sarebbe trovata a mal partito nel caso di un attacco poderoso da parte dei musulmani; secondariamente perché il popolo armeno non aveva il benché minimo interesse ad ospitare sul suo territorio cavalieri francesi che alla prima occasione si sarebbero rivoltati contro con l'intenzione di occupare il regno. E ciò era ben chiaro al de Molay in quanto proprio in Armenia il Tempio aveva ancora delle installazioni nel 1291.
    A ciò si aggiunga che la Francia era stata tenuta in disparte nella predisposizione del piano, rivestendo un ruolo marginale; ben diversa era la posizione dell'Aragona cui non soltanto sarebbe stata attribuito il comando della flotta ma che era contraria ad un0eventuale fusione degli Ordini Templare e Ospedaliero. Già il re Giacomo I, infatti, nel concilio di Lione, temendo la creazione di un ordine militare troppo potente all'interno del suo territorio, aveva manifestato la sua contrarietà a quest'idea.
    Il fatto, poi, che il regno d'Aragona, più che quello di Francia, era interessato a mantenere separati gli Ordini spiega perché l'ago della bilancia fosse stato pendere dalla parte di Giacomo II piuttosto che di Filippo il Bello. Questi avrebbe partecipato alla spedizione militare con un contingente ridotto cui avrebbe sopperito la cavalleria tartara: da qui l'interesse di papa Clemente V a rinforzare l'alleanza con l'ilkhan mongolo.
    Negli ambienti di corte francesi prendeva luce un progetto alternativo di crociata che avrebbe visto nel re d'Inghilterra il suo rappresentante: l'idea era quella di conquistare gran parte del medio oriente, cosa che faceva a ragion veduta temere il popolo armeno.
    Tornando ai rapporti tra il re di Francia e l'ultimo gran maestro del Tempio, agli inizi del 1307 accadde un incidente diplomatico a dir poco sconveniente. Il frate sergente Jean de la Tour aveva prestato un'ingente somma di denaro (stimata in 3000 fiorini d'oro) al re di Francia senza l'autorizzazione degli alti dignitari dell'Ordine, in primis lo stesso gran maestro. Tornato dal suo viaggio in Oriente, de Molay si rese conto dell'accaduto e comminò la sanzione dell'espulsione dall'ordine al tesoriere di Parigi Jean de la Tour. Questi andò a lamentarsi direttamente con il re di Francia che dapprima andò su tutte le furie, poi incaricò un suo consigliere di intercedere presso il gran maestro; il risultato fu un nulla di fatto. Filippo chiese l'intercessione del papa ma anche questa volta il gran maestro fu irremovibile; nella sua Cronaca del templare di Tiro in cui viene ricordato tale avvenimento, il fratello cavaliere narra anche che de Molay, ricevuta direttamente dal tesoriere di Parigi espulso la lettera di papa Clemente V, la gettò nel fuoco.
    Le cronaca riportata è alquanto attendibile, anche perché proveniente da un personaggio interno all'Ordine, ma che nutriva ostilità nei confronti del gran maestro; non a caso elogia il suo predecessore, Guillaume de Beaujieu, presso cui era stato a servizio come familiaris addetto alla segreteria.
    Sempre l'autore della Cronaca narra che il re si adirò molto per questo gesto, mentre papa Clemente convocò immantinente il gran maestro affinché gli mostrasse e consegnasse copia della Regola dell'Ordine. In effetti era analiticamente descritto in essa che qualsiasi comportamento che determinasse una sottrazione indebita di beni affidati ai fratelli dell'Ordine era sanzionata con l'espulsione; anche per piccole somme si poteva incorrere in un procedimento disciplinare. Tutto questo era giustificato dal fatto che gli alti dignitari, e il gran maestro prima di tutti, aveva un diritto di supervisione sui beni assegnati al tempio e qualsiasi sottrazione di qualsiasi somma, seppur piccola richiedeva prima di tutto la consultazione con essi, poi la loro espressa autorizzazione; ciò derivava principalmente dal voto di povertà che l'Ordine aveva inserito nella propria Regola e fatto proprio.
    Un altro motivo per cui era richiesto l'avallo del gran maestro era la funzione di banca che assolveva l'Ordine: al tempo prestabilito questo doveva restituire le somme depositate o prestate dai propri creditori; fare delle scelte finanziarie ardite avrebbe creato uno scompenso e una indisponibilità di denaro liquido che si sarebbe riversato sulla massa dei creditori che attendevano la restituzione.
    Eppure in situazioni particolari l'Ordine non si tirò indietro a prestare del denaro, come quando si trattò di contrattare la liberazione del re Luigi VII.
    O quando il signore di Jonville, siniscalco del re, chiese al Comandante e Maresciallo del Tempio (essendo morto il gran maestro Guillaume de Sonnac) di consegnargli la somma di 30.000 libbre necessarie per la liberazione del fratello del re Luigi IX. Il signore di Joinville ebbe ci testimonia di un'accesa discussione con i due dignitari che mostrarono una forte ritrosia a consegnare la somma. Fermo nei suoi propositi, il siniscalco si recò presso il tesoriere dell'Ordine cui intimò di aprire una cassetta ove era depositata l'ingente somma; questi rifiutò l'invito. Il Joinville alzò minacciosamente un pugnale di cui era munito, ma fu fermato dal Maresciallo; questi non poté altro che ordinare al tesoriere di aprire la cassetta e consegnare al siniscalco la somma richiesta per la liberazione dell'illustre prigioniero.
    La situazione analoga avvenuta anni prima per la liberazione di Luigi VII avvenne in un contesto diverso. In quella circostanza era stato lo stesso gran maestro Evérard des Barres ad aprire i forzieri e a prelevare la somma necessaria per la liberazione del sovrano. Con il fratello di Luigi IX il gran maestro era morto e il Gran Comandante e il Maresciallo del Tempio non avevano l'autorità per poter sottrarre una così cospicua somma. Si trovò, allora, l'espediente dello scasso con cui forzatamente furono aperti gi scrigni contenenti la somma richiesta. Tutto ciò comportava, ad ogni modo, un furto soltanto simbolico in quanto vi era stata l'intesa che l'Ordine sarebbe stato risarcito con il tesoro che il re aveva affidato al Tempio ad Acri.
    Tornando al prestito di Filippo il Bello, in nessun caso un tesoriere avrebbe avuto l'autorità di stornare una tale somma di denaro; anche quando papa Bonifacio VIII reclamò una somma per portare avanti la crociata contro i Colonna, ebbe l'accortezza di chiedere l'autorizzazione al gran maestro che era di stanza in Oriente; ma con uno speciale mandato conferito a procuratore presso la Santa Sede, frate Pietro da Bologna, si riuscì ad aggirare l'ostacolo.
    L'atto di Filippo il Bello di reintegrare il suo benefattore nell'ordine poteva sembrare che fosse dettato da spirito di generosità, ma comunque era un grave illecito compiuto da un confratello interno all'Ordine, che veniva punito con l'espulsione.
     
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    La grave pecca che era attribuita a Jean de la Tour consisteva nel fatto che aveva recapitato personalmente al gran maestro la missiva papale che lo esortava a reintegrare nell'Ordine il tesoriere di Parigi; ebbene la regola del Tempio prescriveva che solo a mezzo l0intercessione papale un confratello, condannato con la più grave sanzione, l'espulsione dall'Ordine, doveva mostrare umiltà e fare penitenza per il misfatto commesso sia nel caso in cui fosse stato riammesso nell'Ordine, sia nel caso in cui fosse stato espulso definitivamente. La riammissione a questa grave colpa era concessa solo per intercessione papale; ed infatti nonostante de Molay avesse bruciato nel fuoco la missiva papale pur tuttavia reintegrò nelle sue funzioni de la Tour. Ma comunque il comportamento di de la Tour era grave: infatti per chiedere l'intervento pontificio il protocollo richiedeva che fosse inviato un legato pontificio e non il soggetto incriminato; con quest'atto il tesoriere aveva ostentato una singolare arroganza che aveva determinato lo scatto d'ira del gran maestro. Inoltre le Regola del Tempio prescriveva che sia nel caso in cui il confratello venisse riammesso, sia nel caso in cui venisse espulso definitivamente, dove a prostrarsi "in braghe" davanti la porta del Tempio a dimostrazione della sua profonda penitenza per l'illecito perpetrato. E questo sicuramente, stando alle testimonianze del Templare di Tiro, Jean de la Tour non fece.
    Non è nemmeno da credere che de La Tour non si fosse minimamente opposto alla richiesta del sovrano: anzi una certa reazione vi sarebbe stata ben consapevole il tesoriere delle conseguenze negative e soprattutto della Regola templare che inibiva a qualsiasi dignitario di prestare depositate senza la preventiva autorizzazione del gran maestro.
    Il Barber ipotizza che l'avvenimento sia avvenuto subito dopo i tumulti che scoppiarono a Parigi per la forte politica inflattiva attuata da Filippo il Bello e la grave crisi economica che si abbatté sul suo regno. Messo alle strette la somma di 3000 fiorini d'oro avrebbe tamponato, seppur temporaneamente, le esigenze immediate cui doveva fra fronte la corona. E si pensa che lo stesso de La Toru sia stato sottoposto a pressione di ogni sorta, financo ricatti, per sborsare la somma richiesta.
    E forse fu proprio quest'episodio a indurre Filippo il Bello a sottrarre le disponibilità finanziarie del regno alla custodia del Tempio; ne conseguiva, giocoforza, la rottura con l'Ordine.
    Inoltre nel caso sotto accusa la colpa si presumeva in colui che avesse distratto la somma nel caso in cui il risarcimento o la restituzione fosse aleatoria: e data la situazione economico-finanziaria disastrosa in cui versava la Francia a quel tempo, la colpa del tesoriere si presumeva.
    Ma un altro personaggio compare nella vicenda: il visitatore Hugues de Pérraud, massima carica templare in Occidente stante la notevole distanza tra Parigi e la Terrasanta. E' stato ipotizzato che il tesoriere incriminato, ben conoscendo i divieti contemplati nella Regola, vedendosi alle strette per le continue pressioni del re, avesse consultato e chiesto aiuto allo stesso visitatore il quale, volendo mantenere buoni rapporti sia col pontefice, ma soprattutto col re di Francia, abbia consigliato la Tour a concedere il prestito a re Filippo. Ed è molto probabile che fu lo stesso visitatore a chiedere al papa, ben conoscendo la facoltà e il potere a lui concesso, di reintegrare la Tour nelle sue funzioni di tesoriere.
    Traendo le conclusioni da quest'avvenimento increscioso, non fu il singolo fatto a far degradare le instabili relazioni tra la corona di Francia e l'Ordine. Furono una serie di conseguenze che alla fine indussero il monarca a spingere per la fusione degli Ordini o, come extrema ratio, la soppressione di uno dei due. Già da diverso tempo con la ritirata delle truppe crociate dal Medio Oriente, il fulcro dell'attività templare si era spostata in Occidente; erano finiti i tempi in cui le commende in Occidente servivano principalmente per sostenere coloro che combattevano in Terrasanta; con la incessante perdita di territori in quelle terre lontane anche l'Ordine aveva mutato la sua fisionomia; adesso si dedicava principalmente al deposito e alla custodia dei beni ad esso affidati.
    Inoltre il timore che un Ordine così potente e finanziariamente forte infondeva non pochi timori a re Filippo. Il caso del tesoriere di Parigi accelerò i tempi di un disaccordo insanabile tra la corona e l'Ordine.
    Sull'elezione al soglio pontificio di Clemente V nella sua Cronica Giovanni Villani ci espone un dettagliato resoconto su come si svolsero i fatti. Alla morte di Benedetto XI il conclave dei cardinali si riunì a Perugia per eleggere il nuovo pontefice; a seguito di contrasti tra la fazione che aveva appoggiato da vivo Bonifacio VIII e la rimanente parte dell'assemblea cardinalizia ben presto scoppiarono dei dissidi: i primi volevano l'elezione di un papa preferibilmente italiano; i secondo uno francese preferibilmente gradito al re di Francia. Per superare o stallo creatosi, gli italiani stilarono una lista di cardinali stranieri che fossero graditi anche ai francesi. Questi la trasmisero immediatamente al re di Francia che notò come nell'elenco fosse stato evidenziato dai cardnali a lui fedeli il nome di Bertrand de Got, già arcivescovo di Bordeaux. Immantinente il re chiese un incontro con l'alto prelato in un bosco nella zona di Saintonge, promettendogli il soglio pontificio in cambio di 5 favori, ed una "condizione particolare" che il futuro pontefice avrebbe dovuto concedergli.
    Bertrand fu ben contento dell'offerta del re.
    Oggigiorno non si ritiene possibile l'incontro segreto tra il futuro papa e il re, anche perché dalle fonti in possesso degli storici in quel periodo sia l'arcivescovo di Bordeaux che il re si trovavano in zone e posti differenti.
    Se non si può ritenere plausibile il famoso incontro, si può ritenere altamente verosimile che l'incontro tra i due vi sia stato a Lione poco prima dell'incoronazione di Bertrand a papa nel novembre del 1305 e che in quell'occasione il re avesse ragguagliato il neo papa delle voci diffamatorie che circolavano sui frati dell'Ordine.
    Sono agli atti una serie di missive intercorse tra il pontefice e il re in cui si parla di un affare segreto intercorso tra i due che con molta probabilità gli storici hanno imputato al processo che si sarebbe tenuto nei confronti del Tempio. Nel febbraio 1307 la complicatissima questione sembra essere giunta al suo epilogo, risolvendosi in maniera del tutto favorevole per il re. Si pensa che a mutare l'atteggiamento del sovrano sia stata la forte somma di denaro che il tesoriere del tempio aveva elargito al re. Felice per questa concessione, Filippo IV sarebbe tornato a più miti consigli sia con il pontefice che con l'Ordine; ciò è confermato anche dal fatto che in quel tempo il gran maestro era ancora in Oriente e non era al corrente del grave illecito compiuto dal tesoriere di Parigi.
    Le lettere precedenti parlano anche di un incontro richiesto dal re che il papa avrebbe più volte rimandato nel tempo, adducendo anche motivi di salute; l'incontro, comunque, si ebbe verso la primavera 1307. In esso si discusse la realizzazione di una nuova crociata cui avrebbero preso parte, con ruolo direttivo, lo stesso Filippo e il Delfino.
    Il re era ancora convinto che una fusione degli Ordini fosse necessaria ma non per distruggerli o sopprimerli, ma per potenziarli. E il papa, in questo senso, era intenzionato più che mai a convincere il gran maestro del Tempio ad appoggiare la proposta del re di Francia. Ma il rifiuto di de Molay, unitamente all'affronto subito per il caso del tesoriere di Parigi fecero retrocedere Filippo da una posizione più conciliativa e di dialogo ad una di attacco diretto verso il Tempio che di lì a qualche tempo avrebbe portato alla sua soppressione.
     
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    Non bisogna pensare che contro le diffamazioni che re Filippo stava mettendo in campo contro l'Ordine presso il papa e le altre corti europee, il Tempio rimanesse inerte; già durante il concilio di Lione per mezzo del suo gran maestro, l'Ordine si era difeso adducendo alle accuse di inerzia le mutate condizioni geopolitiche presenti in Terrasanta; fallito, infatti, un ultimo tentativo di conquista dei Luoghi Santi e ridotto il regno di Gerusalemme ad una sottile fascia costiera, anche l'attività prettamente militare dell'ordine si era ridotta; ma si era andata formando e sviluppando un'altra funzione, quella caritiativo-assistenziale. E così mentre l'Ospedale si era dovuto adeguare passando da un Ordine prettamente di assistenza ad uno militare per tenere il passo coi tempi, negli ultimi decenni del XIII secolo presso il Tempio era avvenuto l'esatto inverso: da Ordine prettamente militare come era stato nelle intenzioni dei suoi fondatori, divenne col passar del tempo una confraternita dedita all'assistenza dei pellegrini che si recavano in Terrasanta, di assistenza ai bisognosi, di cura degli orfani che avevano perso i genitori nei Luoghi Santi, addirittura prestavano assistenza medica mediante medici professionisti, alle partorienti.
    Ma un ulteriore attacco giunse al Tempio nel 1292 quando papa Niccolò IV chiese ai vari concili regionali di esprimere la propria opinione sulla possibilità di fusione degli Ordini militari eventualmente proponendo anche una soluzione. Il re Carlo II ad esempio, era favorevole alla fusione, e a capo del nuovo ordine sarebbe stato un posto un re, in particolare un figlio di un sovrano destinato a diventare re di Gerusalemme.
    Ramon Lull propose di chiamare questo nuovo ordine, Ordine dello Spirito Santo, cui sarebbe stato posto a capo un re guerriero, ma vedovo o celibe. Il progetto, ancora una volta, fallì e non se ne fece niente.
    Ma nel 1305 la questione sull'unificazione degli Ordini tornò di nuovo in auge, proprio qualche anno prima l'arresto e il processo contro il Tempio. E' molto probabile che il ritorno della questione fosse il risultato dei colloqui che ormai da anni intercorrevano tra il papa e il re francese.
    Nell'estate del 1307, pochi mesi prima l'arresto dei confratelli, il papa convoca Jacques de Molay affinché gli venga consegnata una copia della Regola: inizia così una nuova inchiesta che avrà come oggetto ufficialmente la sussistenza dei presupposti affinché si possa raggiungere l'unificazione dei due ordini militari; in sostanza il papa vuole verificare di prima persona se all'interno della Regola la finalità e la funzione dell'Ordine sia prevalentemente militare. Questo perlomeno ufficialmente; nei fatto è noto come Clemente V, che avviò pubblicamente l'inchiesta il 24 agosto 1307 dandone comunicazione al re di Francia, aveva l'intenzione di effettuare un'inchiesta a largo raggio per avere conferma delle dicerie, illazioni, accuse in genere che da più parti si levavano contro il Tempio.
    L'indagine cominciò, ma a seguito delle cattive condizioni di salute del papa, tutto fu rimandato alla seconda metà di ottobre.
    I dignitari dell'Ordine avevano avuto dei segnali in merito ad un eventuale attacco imminente della corona di Francia al Tempio. Ci sono varie testimonianze in merito che ci tramandano anche di alcuni potenti che riuscirono, grazie a queste informazioni ottenute, a mettersi in salvo scampando così all'ordine di arresto del 1307. Ci è giunta anche una missiva con la quale il magister passagii, cioè il confratello deputato a seguire il trasferimento di beni ed uomini dall'Occidente all'Oriente, sollecitava il gran maestro, a seguito delle notizie a lui giunte di un processo a danno dell'Ordine, a fare il possibile per ripristinare buoni ed amichevoli rapporti col re di Francia, lui che poteva.
    Durante gli ultimi anni di vita del Tempio, al vertice vi erano due figure preminenti che potevano, almeno potenzialmente, entrare in conflitto, stante il diverso modo di risolvere la gestione dell'Ordine e i suoi rapporti col re di Francia: Jacques de Molay, prima carica e gran maestro; Hugues de Pérraud, visitatore di Francia. Ebbene il primo propugnava una politica più autonomista, militarista, svincolata dalle direttive del re di Francia; il secondo assumeva la veste di burocrate, diplomatico, più conciliante con le posizione di Filippo il Bello. Ebbene, al fine di evitare uno scontro al vertice de Molay pose il suo "secondo" non in una posizione subalterna rispetto a lui, ma al contrario quasi un suo pari, concedendogli ampia facoltà di manovra in ambito diplomatico e addirittura la facoltà di governare il Tempio in Occidente al posto del gran maestro (loco sui).
    In ogni modo, nonostante questa delega rilasciata a Pérraud, questi se ne servì in maniera mediante il famoso prestito al re. Si può datare la grave manovra economica di Filippo che comportò una grave crisi inflattiva intorno al giugno 1306; in quello stesso periodo ci fu la fuga del re presso il Tempio di Parigi; all'inizio del 1307 vi fu il prestito concesso dal tesoriere di Francia al sovrano.
    Il 15 novembre 1306 Pérraud viene convocato a Cipro; prima di partire si fa rilasciare un documento da Clemente V in cui era ribadito che qualunque decisione fosse presa su Pérraud a Cipro, sarebbe rimasto pur sempre visitatore e supervisore di Francia. L'intervento del papa è quanto mai strano anche perché Pérraud non era stato sottoposto a procedimento disciplinare, né colpito da alcune sanzione grave; era più che altro una sorta di garanzia per il suo rientro in Francia, nel caso in cui il gran maestro avesse avuto intenzione i degradarlo dopo quello che era successo con il tesoriere di Parigi.
    Ma il fatto stesso che una delega scritta non vi fosse, e inoltre revocare un incarico così prestigioso ad un personaggio, il gran visitatore, gradito al re di Francia, era una mossa che non poteva essere posta in essere, perlomeno in quel dato momento storico.
    La figura di Pérraud è certamente legata a quella di Jean de la Tour, il tesoriere del Tempio a Parigi; in particolare il suo atteggiamento di essere reintegrato nell'Ordine recapitando direttamente la lettere al gran maestro, fu vista come un atto di superbia ed alterigia agli occhi di de Molay; inoltre il tesoriere era ben consapevole che se lui aveva commesso un misfatto, chi era sopra di lui e gli aveva concesso l'autorizzazione al prestito (il visitatore Pérraud), ne aveva commesso un altro ancor più grave.
    Sta di fatto che da quel momento i rapporti tra gran maestro e visitatore si incrinarono, anche alla luce di un altro fatto. Nel processo alla memoria di Bonifacio VIII, Pérraud fu chiamato come testimone a carico del defunto papa, ponendosi in antitesi con quella che era la linea e l'orientamento della chiesa; testimoniando contro si era aperta una breccia che offuscava la figura di Bonifacio VIII facendolo apparire agli occhi della cristianità come un papa immorale, eretico, mentre il suo pontificato illegittimo.
    Più avanti lo stesso Pérraud fu anche tratto in inganno dalle lusinghe del Nogaret: gli era stato fatto credere che eliminando la frangia autonomista, militarista che era al vertice dell'Ordine si sarebbe potuto salvarlo; cosa che così non fu.
    Ad ogni modo non bisogna dare un giudizio troppo negativo sull'ultimo visitatore; anch'egli, a modo, suo, voleva tentare di salvare l'Ordine mettendo in atto una politica più accomodante nei confronti del sovrano; cosa che non gli riuscì, com'è noto, in quanto gli eventi storici successivi erano già stati fissati dal re di Francia.
    Del Pérraud se ne ha testimonianza allorquando papa Bonifacio tenta un ultimo tentativo di mediazione con Filippo il Bello all'indomani della pubblicazione delle due bolle Ausculta filii e Unam sanctam; inoltre lo stesso viene convocato, come scritto sopra, a Cipro dal gran maestro ma non per essere sottoposto a procedimento disciplinare, ma più verosimilmente per conoscere le proprie risorse finanziarie, economiche e militari in Occidente nel caso in cui l'idea di una nuova crociata venisse realizzata nei fatti.
    Nel frattempo il 23 agosto 1307 ci sono testimonianze secondo cui l'ambasceria mongola si trova presso il Santo Padre a Roma: vengono offerti 100.000 cavalieri mongoli con altrettanti cavalli, cifra davvero esorbitante per quei tempi! A cavallo della festa dei SS. Apostoli, si tenne a Parigi il capitolo generale dell'ordine, convocato, com'era consuetudine, una volta all'anno e in cui partecipavano i dignitari di tutte le province.
    Durante il capitolo venne affrontata la questione della preparazione della nuova crociata e molto probabilmente anche delle accuse che Filippo il Bello aveva ben due volte presentato contro di loro.
    In ogni modo, dallo scambio epistolare intercorso tra il papa e il sovrano francese appare la volontà del pontefice di aprire la famosa inchiesta sull'Ordine, in tal modo assecondando la richiesta del re; ma nel contempo Clemente pretende che le accuse e le denunce di Filippo siano suffragate da fatti reali o testimonianze scritte, non da pure e semplici illazioni.
    Proprio per questo motivo sembra che quando nell'agosto del 1308 il papa ribadì che le accuse al Tempio erano da lui state ritenute plausibili sulla base della testimonianza di un dignitario di alto rango e di altissimo potere nel Tempio, il riferimento a Pérraud fosse evidente; il visitatore, infatti, era la figura più legata a quella del pontefice, si trovava presso la Curia e Filippo il Bello aveva avuto la discrezione di lasciarlo libero dopo l'arresto di tutti gi altri confratelli.
    In conclusione, la posizione di Pérraud può essere vista come un tradimento? Se si pone mente al fatto che il rispetto assoluto verso il gran maestro e la regola dell'Ordine gli imponeva un'obbedienza indiscussa, certamente sì. Ma attraverso i suoi atti, dall'autorizzazione alla concessione del prestito al re, fino a giungere a confidare al pontefice le accuse che venivano mosse al tempio e al re, sembra che la sua figura non fosse pilotato da interessi ed ambizioni personali, quanto dal redimere l'Ordine, sacrificando anche pochi dignitari che erano al vertice, operando una sorta di palingenesi e rifondando un Ordine che fosse più consono alle nuove esigenze politiche del Tempio, in sostanza più vicino alle posizioni del re, pur non disconoscendo mai la sua funzione e i suoi fini all'interno della Chiesa.
     
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    Il re cristianissimo era intenzionato a rivoluzionare tutte le usanze e i costumi in Occidente allo scopo di attribuire alla Francia un ruolo di primo piano nella conduzione della crociata e nella riconquista della Terrasanta. Per far ciò auspicava la riunione di un concilio generale in cui fossero prese delle decisioni sia di carattere spirituale che di carattere temporale. Prima di tutto era necessario trasformare la scomunica e le altre sanzioni spirituali in multe; successivamente era d'obbligo indurre le repubbliche marinare a dare un appoggio concreto alla causa crociata; su questo filone si inseriva anche la confisca dei beni di quegli enti ed istituzioni che, sorte per dare un ausilio ed un appoggio alla riconquista del Santo Sepolcro, stavano accumulando beni sempre maggiori nei territori d'Occidente, sviando quello che era il fine per il quale erano stati creati: tra questi vi erano gli Ordini degli Ospedalieri e dei Templari.
    Le sedi templari sarebbero stata trasformate in studia puerorum, cioé di scuole deputate all'insegnamento di varie discipline e di lingue orientali a partire da 4 o 5 anni d'età. Sarebbe stato consigliabile istruire a Parigi i principi latini di Outremer, mentre il popolamento dei territori conquistati sarebbe stato affidato non solo ai nobili con il loro seguito di armati, ma anche alle vere e proprie "masse".
    Per quanto riguarda l'organizzazione del'esercito, in ciascuna città conquistata sarebbe stato posto un dux belli, capo dei centuriones; ciascuno di questi dux avrebbe condotto, a loro volta, 8 cohortes. Uno degli obiettivi era la riconquista dell'impero bizantino a cui capo sarebbe stato posto Carlo di Valois, fratello di re Filippo. Questi, d'altro canto, sarebbe stato al riparo nelle retrovie in Francia, ma non per questo sarebbe venuto meno il suo status di crucesignatus, in quanto avrebbe organizzato gli uomini e i mezzi della crociata dalla madrepatria.
    Tutti i beni templari sarebbero stati confiscati, avocati dai sovrani dei vari regni in cui si trovavano, e sfrittati economicamente mediante la concessione in affitto; ma il problema si poneva per tutti quei beni che, rientranti sotto varie commende templari in Europa, non erano economicamente sfruttabili; inoltre si poneva il problema del destino dei frati cavalieri.
    Il Tempio e l'Ospedale sarebbero diventate due istituzioni religioso-educative e i fratelli cavalieri sarebbero stati spostati tutti in Oriente; quelli che non potevano farlo per difficoltà nell'affrontare il viaggio, o per motivi di salute, sarebbero scomparsi, inglobati in altre realtà religiose come l'ordine di Citeaux. Era chiaro che lo scopo principale della macchinazione del sovrano era l'abolizione dell'Ordine eliminando i radice la finalità iniziale per la quale esso era stato creato. Lo steso Pérraud si rese conto, sebbene tardi, delle reali intenzioni del re, e si adeguò alla scelta di difesa dell'Ordine intentata dal gran maestro: successivamente, infatti, ritrattò completamente la sua confessione.
    Ma la ritrattazione di Pérraud costituì un valido strumento nelle mani di Nogaret per accusare il visitatore di eresia e accusare della stessa colpa più di 1000 templari; in aggiunta Pérraud fu colpito da infamia davanti al papa.
    Ma le intenzioni reali del re di Francia, com'è intuibile, non consistevano nel condurre una crociata in Palestina, né tantomeno quella di sfruttare le risorse economiche di quelle terre lontane; la sua reale intenzione era di risanare le disastrate condizioni economiche del suo regno mediante la lo sfruttamento intensivo dei beni confiscati agli ordini militari, in primis quelli templari, con la prospettiva a lungo termine di effettuare una colonizzazione cristiana d'Oriente.
    La fufa di Gérard de Villiers, unico alto dignitario del Tempio sfuggito all'arresto deve essere messo in relazione con le rivelazioni fatte dal visitatore Pérraud. Questi si rese conto troppo tardi che orami per l'Ordine non c'era più scampo; delegò un frate di avvertire tutti i confratelli dell'imminente ordine impartito dal re contro il Tempio, ma il frate chiese che il visitatore glielo mettesse per iscritto, allo scopo di dare veridicità alla notizia. Il visitatore rifiutò, temendo che quest'atto sarebbe stato interpretato dal gran maestro come un tradimento. Nel frattempo de Molay il giorno 12 ottobre 1307 è a Parigi partecipa ai funerali solenni per la morte di Cathérine, moglie di Carlo di Valois, fratello di re Filippo: a lui l'incarico di reggere lo stendardo funebre.
    Alle prime luci dell'alba del giorno dopo un contingente di militari al servizio del re fa irruzione nella magione del Tempio di Parigi arrestando tutti i confratelli ivi presenti; contemporaneamente l'ordine viene diramato in tutta la Francia e si susseguono a velocità impressionante gli arresti in tutte le case dell'Ordine.
    Ad un primo esame non si riesce a comprendere come un Ordine che aveva dei confratelli nelle più importanti monarchie europee potesse cadere sotto gli attacchi di un singolo sovrano; si deve anche rigettare la tesi secondo la quale i confratelli al momento dell'arresto opposero una strenua resistenza contro gi ufficiali regi giunti nelle varie case ad arrestarli. In verità il gran maestro aveva preannunciato loro l'inizio di questa grande inchiesta sull'Ordine già due mesi prima; e quando i cavalieri videro presentarsi loro degli ufficiali venuto ad arrestarli, pensarono che fossero uomini del papa; in effetti anche Clemente era caduto nel medesimo inganno architettato ai danni dei Templari e dell'Ordine.
    Il 22 settembre 1307 l'inquisitore di Francia, il francescano Guillaume de Paris, aveva scritto ai suoi confratelli a Tolosa e Carcassonne che presto vi sarebbe stato un arresto in massa dei templari e deva le disposizioni necessarie affinché venisse allestito il processo, ma soprattutto che nessuna notizia trapelasse fino al giorno prestabilito.
    Lo stesso giorno re Filippo mando una missiva segreta ai suoi balivi, con o scopo di informarli del giorno prestabilito per l'arresto; nel frattempo, come attività preliminari, uomini fidati avrebbero dovuto recarsi presso le magioni, le commende, ma anche i monasteri di altri ordini con la scusa di acquisire informazioni sul pagamento delle decime, ma in realtà per prendere notizie sull'entità e il numero delle case e dei frati residenti nelle varie commende. Il giorno prestabilito gli ufficiali regi, con la seguito uomini d'armi fidati e in numero congruo per opporsi a qualsiasi resistenza da parte dei Templari, si sarebbero dovuti recare presso le commende procedere agli arresti, sequestrare tutti i beni mobili ed immobili di pertinenza delle stesse, e assegnarli in custodia ad uomini fidati e agli stesi servitori residenti nelle magioni. I cavalieri dell'Ordine sarebbero stati posti sotto stretta sorveglianza e soggetti quanto prima alla procedura dell'interrogatorio.
    La notizia del fermo colse Clemente V del tutto impreparato; Il papa si trovava in campagna, nell'entroterra di Poitiers; rientrò subito in città, indisse un concistoro segreto, tranquillizzò i templari al servizio presso la Curia e non toccati dall'ordine di arresto, assicurando loro che la cosa si sarebbe risolta il più presto possibile.
    Il pontefice era del tutto intenzionato a risolvere la questione non pubblicamente ma all'interno della Chiesa; ecco perché incaricò dei cardinali per acquisire informazioni sull'accaduto. Inoltre voleva sottrarre il processo alla longa manus dell'Inquisizione, chiedere che l'inchiesta cominciasse non prima dell'autunno 1307, inchiesta che si sarebbe svolta con la collaborazione del gran maestro e di tutto l'Ordine.
    Il fatto, poi, che i dignitari e gli altri confratelli non avessero opposto alcuna resistenza all'arresto può imputarsi al fatto che gli ufficiali regi mostrarono l'ordine di arresto conferito su delega del papa, il che non era vero; conforme a realtà, invece, è che gli ufficiali regi agissero su disposizioni di un organo della Chiesa, la Santa Inquisizione, deputata principalmente alla cattura e al giudizio sugli eretici. Sotto questo punto di vista si può credere anche alla buona fede degli ufficiali regi che ritenevano di agire effettivamente su mandato papale.
    Per cui un fondo di verità era presente: ma questa verità era stata talmente manipolata ad arte che tendeva inevitabilmente ad accreditare la menzogna e chi ne era colpito veniva diffamato in modo irrimediabile. Di ciò rimangono varie testimonianza anche nei processi politici intentati da re Filippo contro i banchieri italiani e gli ebrei.
     
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    Si è anche a lungo discusso sulla posizione di inerzia del gran maestro e dei confratelli durante le fasi concitate dell'arresto. La giustificazione più plausibile sta nel fatto che opponendo resistenza o, peggio ancora, nel caso in cui de Molay fosse fuggito, indirettamente si sarebbe ammessa la colpevolezza dei fratelli, e non vi sarebbe stato più scampo per l'Ordine. ecco perché il gran maestro e i cavalieri assisi al Tempio di Parigi non reagirono all'ordine di arresto degli ufficiali regi. Inoltre sia questi, sia, a maggior ragione, i confratelli erano convinti che la disposizione fosse stato eseguita con il beneplacito del pontefice che era la somma guida spirituale dell'Ordine; nello stesso tempo pensavano che presto sarebbero stati prosciolti dalle infamanti accuse a loro rivolte, convinti che il papa avrebbe dato loro l'aiuto spirituale e morale che la situazione richiedeva.
    Una volta arrestati fu inibito loro di prendere possesso delle loro armi, e furono isolati; il giorno seguente, "l'anima nera" della corona, Guillaume de Nogaret, riunì nella sala capitolare della cattedrale di Notre-Dame esperti laici ed ecclesiastici sia canonici che docenti di teologia affinché analizzassero le accuse mosse contro il Tempio.
    Il 15 ottobre il papa rientrava di tutta fretta a Poitiers e indiceva un concistoro per il giorno seguente al fine di valutare la grave situazione venutasi a creare; nel frattempo erano già cominciati gli interrogatori ne confronti dei carcerati, mentre Nogaret aveva fatto radunare a Parigi una gran folla alla quale annunciava pubblicamente l'arresto dei cavalieri del Tempio e i crimini di cui erano accusati.
    Il 19 ottobre ebbero inizio le udienze di Parigi; il 25 e il 26 fu la volta delle confessioni del gran maestro e dei maggiori dignitari dell'Ordine che furono lette davanti ad un gran numero di teologi della Sorbona. Ben presto le confessioni furono rilasciate presso le varie commissioni provinciali e in quasi due mesi l'Ordine fu messo sotto accusa per i più svariati crimini contro la Fede e le religione cattolica. Il pontefice, in tutto ciò, stante la velocità dell'inchiesta, non poté organizzare una valida difesa per scagionare i cavalieri da quelle nefande accuse.
    E' risaputo che durante i giorni in cui si tenne il concistoro straordinario a Poitiers presieduto dal papa, già gli interrogatori erano cominciati. Strumenti concreti in possesso del papa ve n'erano, ma molto rischiosi ed aleatori. Prima di tutto vi era lo strumento della scomunica; ma stante il precedente di Bonifacio VIII, Clemente era ben consapevole che un tale atto sarebbe stato interpretato come un affronto nei confronti della corona, e comunque non avrebbe sortito gli effetti sperati, forte com'era in patria il re di Francia. Altro strumento poteva essere l'appoggio politico esterno al fine di fare pressioni sulla corona; ma anche questo espediente lasciava il tempo che trovava, stante l'appoggio e il prestigio che re Filippo godeva presso le corone d'Aragona e d'Inghilterra.
    La situazione precipitò quando il gran maestro e i più alti dignitari confessarono le accuse loro rivolte, in particolare di aver rinnegato Gesù Cristo, oltraggiato la Croce e commesso altri gravi crimini contro l'etica e la morale cristiana.
    L'unico strumento nelle mani del pontefice era l'emissione di una bolla ed infatti con la Ad preclaras sapientie Clemente tentò un vano tentativo di far ritornare il re sui suoi passi; ma più che un atto di accusa contro la corona, la bolla si limitava ad un desolato rimprovero nei confronti del re, in particolare mettendo in luce l'impulsività del sovrano rispetto alla temperanza dei suoi avi. Inoltre nella bolla si invitava il re a rimettere l'inchiesta direttamente nella mani della Chiesa.
    Riguardo la posizione del pontefice, recenti studi dimostrano che Clemente fosse ben consapevole delle accuse che gravitavano intorno al Tempio e una volta asceso al soglio di Pietro era sua intenzione di emendare l'Ordine dall'interno, senza pubblicizzare l'evento e senza scandali: doveva rimanere un affare interno alla Chiesa. Ma per far ciò era indispensabile avere l'appoggio del collegio cardinalizio: ecco perché appena divenuto papa si attivò velocemente per nominare altri cardinali, tra cui alcuni suoi nipoti, mentre altri li richiamò dalla Guascogna.
    Era consapevole dal fatto che una riforma interna all'Ordine era necessaria, ma dove a essere condotta all'interno della Chiesa e con gli strumenti di cui disponeva, con uomini in seno ad essa.
    Appare singolare che dopo il rientro di de Molay dall'Oriente e il caso del tesoriere di Parigi, il papa avesse chiesto al gran maestro una copia della Regola dell'Ordine. Una storiografa contemporanea ha acclarato che a quei tempi il pontefice ne possedeva ben due copie; inoltre fin dai tempi della sua prima stesura fu stabilito che il gran maestro e il suo consiglio potessero modificare la normativa in piena autonomia: non si comprende, allora, il motivo per cui il papa ne chiedesse una copia al suo più alto dignitario.
    Il papa era intenzionato a condurre un'inchiesta sull'Ordine ma secondo i suoi tempi e le sue modalità: ne è riprova la lettera datata 24 agosto 1307 con la quale rinviava qualsiasi decisione sull'inchiesta all'autunno di quello stesso anno. Ma re Filippo era ben consapevole che attendere i tempi del pontefice avrebbe significato approntare una strategia difensiva a favore dell'ordine che avrebbe vanificato i piani del sovrano. Nella bolla unico ordine che veniva impartito al sovrano era di rilasciare i beni del Tempio passati sotto la tutela degli ufficiali regi. Ma sia l'ammonimento, sia l'ordine impartito vennero nei fati disattesi.
    Non bisogna pensare che nel caso in cui l'inchiesta fosse stata sottratta al re e affidata alla Curia l'Ordine ne sarebbe uscito indenne: già da tempo si rincorrevano le notizia di una palingenesi all'interno del Tempi e il papa era del tutto intenzionato a concretizzare queste voci. Ma i propositi del pontefice, per quanto ispirato dai migliori intendimenti, non sortirono l'effetto sperato, a causa dell'inchiesta che repentinamente condusse re Filippo contro l'Ordine.
    Prima di procedere ad analizzare nel dettaglio le varie fasi del processo inquisitorio, è opportuno esporre i 3 passaggi mediante i quali si instaurava un giudizio davanti l'organo dell'Inquisizione. Vi era l'accusatio, mediante la quale un individuo si rendeva responsabile di lanciare un'imputazione contro un altro individuo, ed era passibile di pena nel caso in cui l'accusa si rivelasse infondata; la denunciatio, con la quale un pubblico ufficiale sollecitava la corte a prendere provvedimenti contro eventuali colpevoli che ricadessero nella sua giurisdizione; ed infine l'inquisitio, con la quale era lo stesso ordinario dell'Inquisizione a citare il sospettato, imprigionandolo se si presumeva che potesse fuggire.
    I capi d'accusa (capitula inquisitionis) venivano letti al sospettato, quindi avevano luogo l'interrogatorio, si procedeva ad ascoltare i testimoni, la difesa di parte, ed infine l'emissione del verdetto; nei casi d'eresia bisognava stabilire il grado di gravità del sospetto, che andava da levis, vehemens e violentus: quelli contro l'Ordine era vehemens, quindi di grado internedio.
    La procedura, nel processo contro i Templari, era la terza, quella dell'inquisitio, in quanto era stato proprio l'Inquisitore di Francia a chiedere al re aiuto materiale per condurre il processo. Questo, in genere, era condotto da un solo Inquisitore, coadiuvato da più assistenti che preparavano l'istruttoria e svolgevano la prima parte del lavoro; a volte poteva accadere che vi fossero due inquisitori che collaboravano insieme, ma questa era l'eccezione.
     
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    Già nel XII secolo fu disposto che un giudice delegato dalla Santa Sede potesse delegare i poteri inquisitoriali, mentre nel 1246, col concilio di Béziers, si autorizzò l'inquisitore a nominare dei deputati che avviassero l'inchiesta in un luogo dove non poteva recarsi di persona.
    I pubblici ufficiali erano tenuti ad un giuramento d'obbedienza a fornire tutto l'aiuto necessario per condurre il processo, e alo steso obbligo era tenuto il popolo cattolico: nel caso contrario si poteva essere accusati di connivenza con gli inquisiti.
    Gli inquisitori erano sottoposti alle sole direttive del papa e per questo avevano una libertà d'azione quasi assoluta; essi dovevano obbedienza al proprio priore solo in qualità di monaci e non di inquisitori; normalmente potevano essere rimossi solo per incapacità d'agire, malattia, età avanzata o ignoranza.
    Tecnicamente l'accusatio di Filippo era stata intavolata in modo ineccepibile anche perché nel caso di insuccesso la responsabilità sarebbe caduta sull'accusatore; già in precedenza il sovrano aveva tentato la stessa tecnica nel processo contro Bonifacio VIII, e solo la fermezza di Clemente V aveva mostrato che trattavasi di un errore. La conseguenza fu che lo stesso re fu sottoposto a inchiesta in quanto l'accusatio rivolta al papa deceduto risultò infondata. Nello stesso tempo nell'inchiesta contro i templari non si poteva neanche seguire la via della denunciatio in quanto nessun pubblico ufficiale avrebbe avuto il peso e la forza giuridica necessaria per portare avanti con successo tutta la vicenda.
    L'ordinario dell'Inquisizione non era personalmente responsabile per le azioni da lui intentate. Il re provvide ad acquisire le testimonianze di alcuni rinnegati del Tempio per avviare la procedura inquisitoria; poi, al fine di raggiungere la situazione giuridica della vehemens suspicio trasmise gli atti all'inquisitore, nella persona di Guillaume de Paris; il sovrano, a questo punto, era addirittura tenuto a fornire tutti gli atti e documenti in suo possesso per supportare la tesi accusatoria formulata dell'inquisitore.
    Agli inizi del XIV secolo la procedura si apriva, nella maggior parte dei casi, con la delazione, cioè con un atto di accusa nei confronti di un soggetto in odore di eresia; successivamente venivano acquisiti tutti gli elementi necessari per sostenere l'accusa e veniva ascoltato segretamente l'accusato. Questi era convocato in un luogo sicura, e nel caso in cui vi fosse pericolo di fuga, veniva incarcerato; nel frattempo si ascoltavano i testimoni.
    Attorno alla figura degli inquisitori gravitata un numero di soggetti chiamati familiares (o "famigli"), personaggi dalla dubbia reputazione il cui scopo precipuo era quello di acquisire informazioni utili da poter comunicare ai giudici dell'Inquisizione; molto spesso erano personaggi di dubbia reputazione che talvolta agivano al limite della legalità; il popolo, che veniva a contatto con loro, molto spesso era soggiogato da loro, per cui venivano confessati fatti che spesso corrispondevano soltanto a dicerie, se non addirittura a fatti del tutto inesistenti; inoltre i "famigli" spesso usavano atti intimidatori o di violenza per estorcere le confessioni volute.
    Anche per questo motivo re Filippo ricorse allo strumento dell'Inquisizione: era in sostanza un apparato scevro da qualsiasi vincolo che, come detto, usava personaggi che agivano al limite della legalità.
    L'imputato poteva scegliere tra due strade: confessare le accuse, abiurare l'eresia ed accettare qualunque pensa gli venisse imposta sotto la forma religiosa della penitenza (spesso questa coincideva con la prigione a vita); oppure negare le accuse, e date le evidenze raccolte contro di lui, essere ritenuto un eretico impenitente da abbandonare al braccio secolare e quindi al rogo.
    E' stato sottolineato che anche nel caso in cui i cavalieri abiurassero dovevano comunque rendere una confessione sui misfatti di cui erano accusati; per cui non si poteva uscire indenni dall'inchiesta e dal processo se non ammettendo alcune delle colpe di cui si era accusati.
    In una lettera di protesta datata 24 ottobre 1307, papa Clemente espone le sue rimostranze al re dichiarando il grave oltraggio che era stato fatto ai Templari che erano stati ingiustamente arrestati. Inoltre il papa temeva anche che l'uso della tortura per i processi di eresia, legittimato da papa Innocenzo IV nel 1252, potesse essere usato anche nei confronti dei fratelli cavalieri del Tempio; cosa che nei fatti avvenne.
    Il giorno dopo l'arresto, il 14 ottobre 1307, il Nogaret aveva reso pubbliche tutte le confessioni dei cavalieri mediante una lettura davanti i notabili del regno laici ed ecclesiastici, riuniti nella sala capitolare della cattedrale di Notre-Dame a Parigi.
    Il 25 ottobre Jacques de Molay fu separato dagli altri e interrogato, per poi essere condotto davanti un'assemblea di prelati, baccellieri e Maestri della Sorbona per ripetere la sua confessione.
    L'inquisitore ebbe anche la scaltrezza di far confezionare una lettera indirizzata a tutti i fratelli del Tempio affinché confessassero davanti gli organi dell'Inquisizione la procedura seguita durante il rito d'iniziazione per entrare a far parte dell'Ordine; la missiva venne sigillata con la bolla d'argento del Gran Maestro per indurre gli altri Templari alla confessione, nonostante fossero vincolati al segreto.
    Il gran maestro confessò tutti crimini commessi durante la sua cerimonia d'ingresso, tra cui rinnegare Gesù Cristo e sputare sulla Croce; nello stesso tempo esortò i confratelli a lui subordinati di fare altrettanto, ossia di esporre ed eventualmente confessare i misfatti da loro commessi durante la recezione nell'Ordine.
    Era un ordine; in particolare un ordine del gran maestro cui tutti dovevano obbedienza come fosse impartito direttamente da Dio; questo perché lo stesso gran maestro era alle dirette dipendenze del pontefice, vicario di Cristo in terra. L'inosservanza dell'ordine impartito dalla massima autorità veniva punito con la più umiliante degradazione, la perdita dell'abito, che durava un anno e un giorno, mentre nello stesso tempo la sanzione impediva l'ascesa alle più alte cariche onorifiche dell'Ordine stesso.
    Ma è stato supposto che la lettera inviata da de Molay a tutti i cavalieri del Tempio avesse non solo il contenuto di un ordine indirizzato a tutti i confratelli, ordine tanto più penetrante in quanto derivante dalla massima autorità all'interno del Tempio; ma svolgeva anche la funzione di "autocertificazione", in cui il gran maestro asseriva pubblicamente i suoi crimini, autocertificazione che assumeva il crisma della giuridicità in quanto resa davanti ai maestri e ai dotti della Sorbona che fungevano da testimoni della confessione medesima.
    Il gran maestro apparve ala folla smagrito e smunto con bruciature sulla schiena sul dorso; apparso alla folla gridò di come la confessione era stata estorta con la violenza.
    Subito dopo Filippo il Bello tornò alla carica, facendo forti pressioni sui cardinali presenti fiduciari del papa, per procedere alla fusione degli ordini com'era nelle sue intenzioni originarie. Era una conseguenza dell'altro fine del re che si basava su altre 4 questiones: non vi è necessità di concedere all'Ordine una difesa adeguata i quanto dichiarato eretico, e le sette eretiche devono essere soppresse senza discussioni così com'era avvenuto per quella dei nestoriani; tutti i frati sono colpevoli, anche quelli che non hanno commesso personalmente alcun crimine, in quanto il vivere in comune ha corrotto anche quelli sani e non colpevoli; il Tempio dev'essere eliminato, per tutti questi motivi, senza indugio senza indulgere in procedimenti giudiziari; la Chiesa deve affrettarsi a farlo prima che lo scandalo la sommerga.
    Si è discusso si chi fosse in realtà l'autore delle quaestiones: alcuni le attribuiscono al Nogaret stesso, ma fonti più attendibili attribuiscono la paternità dell'opera a Pierre Dubois.
    E' noto che papa Clemente sospese i poteri dell'Inquisizione per i modi sommari e proditori con cui era stato intentato il processo contro l'Ordine. Non è nota la bolla con cui il papa ne ripristinò i poteri in forma limitata, comunque sembra che dovette essere allorquando i suoi legati videro le ferite inferte al gran maestro durante la sua confessione pubblica davanti a loro e al popolo. Nonostante il pontefice fosse ormai convinto che l'Inquisitore stava agendo secondo una procedura illegale, giunse inaspettata la confessione del gran maestro.
    Ad ogni modo il re di Francia aveva riunito i Maestri e i dotti della Sorbona affinché potesse essere emesso il verdetto di accusa per il successivo scioglimento dell'Ordine; nel contempo richiedeva se le testimonianze, o meglio le confessioni rilasciate da oltre 500 templari, fossero sufficienti a giustificare la soppressione o fosse indispensabile un risultato analogo negli altri regni d'Europa. Gli esperti della Sorbona furono vaghi e si posero sulle stesse posizioni del pontefice: le confessioni raccolte potevano dar luogo non ad un giudizio definitivo di colpevolezza, ma tutt'al più a configurare una vehemens suspicio; inoltre risulta un'esagerazione un numero di ammissioni di colpevolezza di 500 cavalieri; alcuni di essi ricusarono le accuse rivolte nei loro confronti, ricusazioni che aumentarono nel corso del tempo.
    Il re di Francia, una volta sospesi i poteri inquisitoriali, si mosse in ambito civile per poter dare una giustificazione all'attacco mosso all'Ordine, giustificando un processo al tempio motivato dalla natura laica dei fratelli cavalieri. Ma anche questo tentativo fallì, in quanto i Maestri ribatterono affermando che i frati prendevano i voti monastici di un ordine religioso istituito dalla Chiesa, dunque si trattava di un ordine religioso a tutti gi effetti mentre l'intervento ai loro danni si configurava come un abuso contro la Chiesa.

    Edited by Seiano - 8/8/2014, 22:56
     
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    Clemente era sempre più convinto che le reali intenzioni del re erano quelle di appropriarsi del tesoro templare con tutti i beni che di esso facevano parte. Per questo riteneva utile destinare gli stessi alla causa della Terrasanta quanto prima. Il re, visto l'attendismo del papa, convocò nuovamente gli Stati Generali che erano formati dai rappresentanti delle città, del clero e della nobiltà ma con suo stupore le lettere di convocazione giunsero ai delegati lo steso giorno in cui arrivò il verdetto dei Maestri della Sorbona col quale, in sostanza, veniva ritenuto illegittimo l'abuso del re nei confronti di un Ordine che era pur sempre un ordine religioso.
    A questo punto cominciarono le illazioni, le minacce velate nei confronti dello stesso pontefice con le quali si manifestavano le conseguenze avute dai precedenti papi che erano stati docili nei confronti dei movimenti ereticali. Addirittura un libello che fu pubblicato in quel periodo a nome del popolo di Francia ma concordemente attribuito a Pierre Dubois, metteva in luce le nefandezze perpetrate dall'Ordine e si sollecitava il papa a prendere provvedimenti seri nei confronti del Tempio; si colpiva, inoltre, il papa facendo leva sul suo nepotismo, avendo nominato cardinali suoi nipoti e elevato ai più alti ranghi della Curia persone sue conterraneee; sempre a nome del popolo, Dubois sollecitava il re a ricondurre il papa sulla retta via.
    Il 29 maggio, stante l'immobilismo del pontefice, Guillaume de Paris, l'Inquisitore di Francia, tenne un acceso discorso contro il papa a Poitiers, con toni roventi di polemica e di diffamazione. Venivano accusati il gran maestro e i suoi dignitari di aver confessato le proprie colpe ancora prima che venissero arrestati, che in seguito la revoca era stata comprata con denaro sonante, che molti Templari non avevano retto l'onta del disonore preferendo la strada del suicidio, che addirittura anche a seguito di prodigi alcuni frati cavalieri si erano decisi a confessare i propri misfatti.
    Nonostante la forte invettiva contro il pontefice, questi non indietreggiò dalla sua decisione fu per questo che il 14 giugno l'avvocato dell'Inquisizione tenne un'altra arringa in cui sosteneva che di fronte a crimini di eresia no si poteva attendere oltre e risultava inutile procedere con un processo classico; gli stessi cardinali delegati dal pontefice veniva accusati latamente di essere conniventi degli arrestati; non ci voleva molto a capire che la posizione del pontefice era alquanto precario in quanto da autorità decisa a procedere con un giusto processo diveniva personalmente imputabile. In queste accuse vi fu un palese riferimento a papa Anastasio, di per sé un buon papa che però fu deposto da un concilio per essere stato troppo indulgente nei confronti dell'eretico Acacio; addirittura alcuni ipotizzarono che vi fosse anche un riferimento a papa Bonifacio VIII nella fase in cui il re convocò un concilio per deporlo.
    Dopo questa serie di accuse, manifeste o latenti, il re si recò a Poitiers presso la Curia e per incontrare personalmente il pontefice; anche lì il re avanzò delle ulteriori proposte al pontefice, paventando l'idea di restringere fortemente il potere temporale della Chiesa, al fine di spaventare Clemente. Ma anche in questo caso il pontefice non si lasciò influenzare: spossato dalla guerra psicologica condotta contro il papa, il re dovette cedere all'idea che il papa interrogasse personalmente gli arrestati e che venisse condotto un processo parallelo in seno alla Chiesa di Roma.
    Filippo il Bello aveva acquisito una serie di prove che sperava venissero accolte per poter emettere la sentenza di condanna contro l'Ordine: queste, perlomeno, erano le sue intenzioni allorquando nella primavera del 1308 sperava di mettere la parola fine al processo contro l'Ordine.
    In effetti salta subito all'occhio l'ordine di arresto del 22 settembre 1307, le modalità in cui doveva essere attuato, ma soprattutto le parti di cui il provvedimento regio era composto.
    La prima parte era scritta in latino ma un latino complesso ed ampolloso che lasciava adito a difficoltà interpretative; la seconda indicava le modalità in cui l'arresto doveva essere eseguito sul territorio francese, era scritto nella lingua nazionale ed era di pronta e facile comprensione? Perché? Il motivo era unico. Nella prima parte i balivi del re e gli ufficiali regi non dovevano sindacare o interpretare nel merito l'ordine che, naturalmente conteneva anche le accuse mosse all'ordine; i balivi, che nella maggior parte erano persone illetterate, dovevano soltanto eseguire gli ordini, non dovevano sindacarlo nel merito, quindi, in sostanza, capirne i motivi; ecco che interviene la seconda parte, scritta in francese, in cui erano descritte le modalità in cui l'arresto doveva essere operato, le istruzioni per eseguire gli arresti.
    Il sovrano comandava ai suoi ufficiai di mettere per iscritto le confessioni rilasciate dagli interrogati per poi presentarle al papa che poi li avrebbe condannati come rei confessi.
    La cedola in francese in cui venivano indicate le modalità d'arresto, conteneva 7 capi d'imputazione mossi ai cavalieri, la maggior parte riguardanti il rito d'iniziazione per entrare nell'ordine. Vi erano l'invito fatto al novizio di rinnegare Gesù Cristo, di oltraggiare la Croce con sputi, di baciare sula bocca il frate che dirigeva il rito, di baciarlo sulla parte finale della schiena, e che il neofita non avrebbe dovuto negarsi nel caso in cui i confratelli avessero voluto congiungersi carnalmente a lui; si diceva anche che i cavalieri adoravano un idolo a forma di testa, che portavano appesa una cordicella che ricordava quell'idolo; infine un'altra accusa era che i frati dell'Ordine non consacravano l'Eucarestia.
    Re Filippo aveva tratto forza da una serie di delazioni ed accuse pressoché infondate che avevano poi costituito il fulcro della sua tesi accusatoria. E' singolare la missiva inviata da uno di questi delatori, Esquieu de Floyran, a Giacomo II d'Aragona in cui chiedeva che il re spagnolo mantenesse la sua parola nel cedergli il denaro e le rendite sui beni templari che il re gli aveva promesso se le accuse rivolte al Tempio si fossero rivelate fondate. Poco prima, infatti, i sovrano d'Aragona, non credendo a quanto asserito da de Floyran, lo aveva invitato a provare le sue illazioni facendogli la promessa: adesso, con ciò che stava succedendo in Francia neanche Giacomo II poteva negare l'evidenza. de Floyran, un rinnegato appartenente al'Ordine, descriveva meticolosamente tutte le accuse imputate ai templari, dallo sputo sulla Croce al rinnegamento di Cristo, al bacio tra confratelli alla sodomia; non citò, invece, l'aneddoto della cordicella e la mancata consacrazione dell'Eucarestia, che molto probabilmente fu un'aggiunta creata ad hoc dagli emissari del re.
    Filippo fece assistere alla confessione del gran maestro i maestri della Sorbona di Parigi; ma il 27 ottobre 1307 uno dei maestri presenti, Matteo de Brugaria, scrivendo a Giacomo II lo informava che il gran maestro aveva ammesso personalmente soltanto il rinnegamento di Cristo e l'oltraggio alla Croce tacendo sugli altri fatti, lasciando che altro confessassero le altre accuse.
    Nel suo discorso al papa, Guillaume de Plaisians informò il pontefice che i templari arrestati avevano confessato altri e più gravi crimini che non erano stati elencati negli atti di accusa redatti dagli avvocati del sovrano.
    Si nota anche una diversificazione delle varie accuse durante il corso dei mesi: mentre fino all'agosto 1308 i capi d'imputazione erano più semplici e comprensibili anche da parte dell'imputato, da quella data, corrispondente all'emissione della bolla Faciens Misericordiam di papa Clemente, i capi d'accusa vengono catalogati ed elencati numericamente; la stessa loro classificazione mostra una certa variabilità sia nel tempo che nello spazio; ad esempio mentre i Inghilterra e in un'inchiesta a Cipro essi sono 87, in altri casi si hanno elenchi più ampi di 108 12, 124 e 127 articoli numerati.
    Nel maggio 1308 il re si presentò a Poitiers dal papa per discutere la posizione degli arrestati ma il pontefice fu irremovibile nell'affermare che giammai avrebbe condannato degli innocenti e che avrebbe giudicato personalmente le loro colpe e concesso il perdono nel caso in cui si fossero pentiti e rimessi nelle mani della Chiesa.
    Il 29 maggio 1308 Guillaume de Plaisians dichiarò al papa che i templari avevano addirittura ammesso dei crimini ancora più gravi e non contemplati negli elenchi accusatori: la violazione del sacramento della Penitenza che il gran maestro impartiva ai frati; l'abitudine a tenere i capitoli di notte, com'era d'uso presso gli eretici; l'aver stretto alleanza proditorie con gli infedeli, a causa delle quali era stata persa la Terrasanta; la negligenza nel serbare i doveri dell'ospitalità e dell'elemosina; l'uso di far promettere ai nuovi accoliti che avrebbero procurato denaro e beni all'ordine con mezzi leciti ed illeciti; l'omertà e la negligenza, in quanto il gran maestro non aveva confessato questi crimini alla Chiesa.
    Gli avvocati provvidero a redigere un elenco ampio e dettagliato con tutti gli atti d'accusa vecchi e nuovi e si attivarono nel consegnarlo al papa. Si comprende come rispetto a quello che era l'elenco vecchio, composto da 87 articoli, nel corso del tempo se ne fossero aggiunti degli altri grazie alla manipolazioni operate dagli avvocati del re.
    In sostanza da quello che era il teorema accusatorio originale, col passar del tempo l'intero procedimento giudiziario contro l'Ordine (che comincia con l'esecuzione dell'ordine di arresto il 22 settembre 1307 e si conclude, moralmente, con l'esecuzione della pena capitale per il gran maestro il 18 marzo 1314), sia stato stravolto: da quelle che erano le accuse originarie se ne sono aggiunte altre, il più delle volte inventate o comunque risultanti dalla modifica dei quelle originarie; tutto questo fa pensare ad un processo politico finalizzato alla soppressione dell'Ordine e all'acquisizione delle immense fortune di cui era depositario. E in questa lotta tra le due autorità più influenti del tempo, il re ebbe alla fine la meglio.
     
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    Alla fine del giugno 1308 Clemente V poteva finalmente aprire quell'inchiesta che già dall'autunno dell'anno precedente era intenzionato a condurre. I giorni 28-20 luglio di quello stesso anno i Templari arrestati furono invitati a comparire davanti una speciale commissione tenuta a Poitiers e composta da 4 cardinali fedelissimi del papa: gli onnipresenti Bérenger Frédol ed Etienne de Suisy, il napoletano Landolfo Brancacci e Pierre de la Chapelle-Taillefer; tutti erano stati nominati cardinali sotto Clemente, eccetto Landolfo Brancacci creato tale già dal 1294.
    Si è detto che il papa scelse questi 4 alti prelati per la loro stretta vicinanza al re di Francia, ma da come fu condotta l'inchiesta non sembra che le cose fossero esattamente così; certo il pontefice scelse dei cardinali non solo a lui fortemente fedeli (alcuni affermavano che i 4 non erano i cardinali della Chiesa, ma del papa), ma anche graditi al re.
    Il napoletano Landolfo Brancacci era devoto agli Angiò e grazie alla oro influenza era riuscito dapprima a ottenere il seggio episcopale di Aversa e poi la nomina cardinalizia sotto Celestino V.
    Successivamente si avvicinò al re d'Aragona e gli rimase fedele.
    Era un antibonifaciano convinto e con lo stesso re d'Aragona abbia confessato pensati considerazioni sul Caetani; ma durante il processo intentato contro il predecessore di Clemente tenne un atteggiamento assolutamente irreprensibile, fedele al papa e alla Chiesa rifiutandosi di rilasciare qualsiasi commento o giudizio sul conto di Bonifacio.
    Etienne de Suisy detenne l'incarico di guardasigilli del re di Francia dal 1303 al 1307, anno in cui l'incarico passò inaspettatamente al Nogaret, il giorno stesso in cui fu emesso l'ordine d'arresto nei confronti dei Templari. Questo si spiega col fatto che il re non poteva certo mantenere in quel ruolo un ecclesiastico che gli avrebbe fatto subito notare l'illegittimità dell'arresto.
    Bérenger Frédol era il cardinale più autorevole tra i quattro, quello che nei documenti ufficiali viene sempre nominato per primo, nonché nipote di papa Clemente; era famoso perché uomo moderato e prudente, ed era stato scelto non solo per questa sue qualità ma anche perché conosceva i metodi, e gli abusi commessi dal Tribunale dell'Inquisizione.
    Nel giugno 1296, durante il conflitto tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, il clero francese si riunì a Parigi in assemblea, allo scopo di nominare due cardinali che avrebbero dovuto svolgere una delicata missione diplomatica presso la Santa Sede: al papa doveva essere esposta la grave crisi e il contrasto che vi era in Francia tra il clero e l'autorità regia. era per questo indispensabile inviare a Roma dei rappresentanti che fossero non di parte, ma che potessero dirimere la controversia in atto senza appoggiarsi apertamente sull'una o l'altra posizione. Furono scelti come rappresentanti del clero di Francia i vescovi di Nevers, Jean de Savigny, e proprio Bérenger Frédol, alora vescovo di Béziers.
    Papa Bonifacio aveva una grande stima per quest'ultimo, tanto che lo invitò a redigere il Sesto libro delle Decretali; inoltre si trovò coinvolto nuovamente in un caso che avrebbe portato ad un altro scontro col re di Francia.
    In particolare i consoli della città dov'era prelato avevano imposto una taglia municipale ai chierici che si trovassero nella oro giurisdizione territoriale; ma sulla scia della bolla Clericis laicos emanata qualche tempo prima da Bonifacio VIII, veniva scomunicato qualunque sovrano che avesse imposto tasse, imposte o gabelle sugli ecclesiastici senza la preventiva autorizzazione del papa. I chierici si mossero adeguandosi al dictum della bolla per cui ritennero la città sottoposta all'interdetto e sospesero le professioni liturgiche.
    Bérenger intervenne ancora una volta recandosi a Roma e fingendo da intermediare nella contesa tra i consoli francesi e il papa.
    Fredol conosceva bene i metodi adoperati dall'Inquisizione, anche perché occasionalmente era stato inviato a supervisionare il suo operato. Nel 1300, ad esempio, assistette personalmente alla sentenza degli inquisitori contro un eretico ricaduto nell'errore (relapsus): in quella sede sembra addirittura che fosse stato incaricato dal re a visionare l'operato dei giudici insieme al vescovo di Maguelone.
    L'anno seguente dovette perorare la causa di Bérnard Délicieux, il cui caso prese personalmente a cuore. Probabilmente il vescovo di Béziers incontrò il francescano a Senslis, dove la Curia si trovava per discutere il caso del vescovo di Pamiers accusato dal re di tradimento; il francescano era venuto a Snslis insieme ad una delegazione delle città di Albi e Carcassonne che doveva denunciare gli abusi e lo stato di oppressione che gli inquisitori facevano pesare sul paese.
    Il realtà Délicieux fu messo a centro di una macchinazione, accusato di fomentare la popolazione di quelle zone; stante l'austerità e il forte spirito d'animo, Frédol lo prese sotto la sua protezione; ma alle accuse mosse dal sovrano, Clemente non poté far altro che imprigionare il francescano in via preventiva, in realtà assegnandogli un alloggio e tenendolo presso di sé in regime di semilibertà.
    Quando Frédol divennne cardinale e penitenzierie del papa, la sua posizione in seno al collegio cardinalizio si fece più importante, tanto da riuscire a concedere a Délicieux dapprima la piena libertà, poi la facoltà di allontanarsi a tempo determinato dal luogo di residenza, infine il perdono da parte del re e la liberazione definitiva.
    A riprova degli abusi perpetrati dal Tribunale dell'Inquisizione, già sotto Bonifacio VIII si erano levate delle lamentele tra la popolazione dell'Albigeois da parte dei canonici di St.-Cécile e St.-Salvi di Albi, cui si erano uniti anche l'abate e i monaci di Gaillac: gli ecclesiastici so facevano personalmente garanti dell'innocenza e della perfetta ortodossia di quella popolazione, ormai esasperata dagli abusi di potere degli inquisitori.
    Al papa erano giunte notizie che il vescovo di Albi e gli inquisitori locali avevano arrestato e condannato all'ergastolo mo,te persone della città, tenendole imprigionate in condizioni a dir poco disumane, addirittura facendo loro mancare il cibo. Ecco perché Clemente il 13 maggio 1306 incaricò due legati del collegio cardinalizio, Bérenger Frédol e Pierre de la Chapelle-Thaillefer di condurre in suo nome un'inchiesta sugli inquisitori, di verificarne personalmente le accuse e le condizioni dei prigionieri, ed eventualmente di deporre il vescovo di Albi sostituendolo con una persona degna.
    Frédol insistette molto presso il papa, tanto che questi dovette prendere la decisione di sostituire il vescovo di Albi "nello spirituale e temporale", preponendo alla diocesi un Vicario generale.
    Frédol si era ormai reso conto che lo strapotere di cui godeva l'Inquisizione era conseguenza di quella forte immunità e autonomia di cui ormai godeva quell'istituzione, concessale proprio dalla Chiesa allorquando doveva combattere i movimenti ereticali. Caratteristica dell'Inquisizione è che essa poteva agire anche d'ufficio, senza, cioè, che fosse intentato ed avviato uno specifico processo ad hoc. Nel contempo la Chiesa, pur servendosi del Tribunale, non poteva emettere sentenze capitali, né, tantomeno, dare ad esse esecuzione: ecco perché si serviva del potere laico, il braccio secolare, per poter rendere esecutiva la sentenza di morte. Questo efficientissimo mezzo per reprimere l'eresia divenne, col passar del tempo, un efficientissimo strumento nelle mani dell'autorità laica costituita, per reprimere qualsiasi oppositore politico: così avvenne, ad esempio, agli inizi del XIII secolo quando fu intentata la crociata contro gli albigesi, e così accadde, quasi un secolo dopo, nel processo contro Templari.
    Ben presto, grazie all'immenso potere tributatole, l'Inquisizione tese anche ad agire contro gli ecclesiastici allorquando si avesse il sospetto di una qualche eresia o anche solo perché il condannato fosse visto come traditori: fu quello che successe al vescovo di Troyes, condannato al rogo come eretico da Filippo il Bello tramite l'Inquisizione senza che il pontefice avesse rilasciato il suo consenso.
    Anche quando non vi erano più i presupposti che legittimassero certe accuse presso il Tribunale, questo ne creò autonomamente delle nuove, determinando un'ipertrofia della casistica in cui si poteva incorrere nel giudizio inquisitorio.
    Ecco perché quando nel 1312 il pontefice emise la costituzione clementina Multorum querela, dove molto probabilmente uno dei principali redattori fu proprio il Frédol, molti inquisitori reagirono duramente contro un provvedimento che di fatto limitava fortemente le prerogative degli inquisitori e i poteri del Tribunale.
    Proprio per questo Frédol era riuscito a conoscere nei dettagli quelle che erano le pratiche adottate dall'Inquisizione i cui imputati appartenevano non solo al gruppo degli eretici, ma ben presto in esso vi si fecero rientrare anche oppositori, o nemici politici del sovrano, o anche avversari personali del Tribunale; ecco perché il cardinale si batté per diversi anni se non per eliminare, quantomeno per arginare e limitare lo strapotere di cui titolare il Tribunale dell'Inquisizione.
    Il re non poté, così, evitare che il papa interrogasse i templari arrestati e per questo inviò presso la Curia a Poitiers 72 frati ma evitò di mandare il gran maestro e gli altri dignitari.
    Il papa non rinunciò al suo intento e inviò comunque dei suoi legati presso il castello di Chino dove erano stati relegati il gran maestro e gli alti dignitari dell'Ordine; l'udienza si tenne i primi giorni di agosto del 1308 e fu considerata parte integrante dell'inchiesta pontificia.
    I Templari condotti davanti al pontefice avevano già tutti subito l'interrogatorio da parte degli avvocati regi. Le deposizioni da oro rilasciate risultano alquanto stringate come se gli avvocati regi avessero stralciato il grosso della testimonianza a vantaggio di ciò che oro interessava: la confessione dei misfatti addebitati ai templari e l'indicazione dei soggetti che potevano testimoniare sulla procedura di ingresso all'Ordine e degli illeciti in esso compiuti. Tutto il resto era superfluo o inutile ai fini dell'accusa, per questo le deposizioni risultano alquanto ristrette. Inoltre alla fine della deposizione i Templari dichiaravano di non aver mentito per effetto delle torture o altre forme di violenza, anche se il papa non si fidò minimamente di quanto scritto negli atti dell'inchiesta regia.
    L'inchiesta papale e quella regia ben presto mostrarono delle antinomie. In particolare alcuni frati interrogati dal pontefice, dichiararono di appartenere ad un ordine religioso, di osservare il digiuno, di professare i salmi e le ore, di preghiera più volte nel corso della giornata, di osservare i voti di povertà, castità ed obbedienza, etc.; tutte pratiche che non collidevano assolutamente con i verbali delle deposizioni rilasciate davanti agli avvocati del re; d'altronde come si poteva considerare eretico una persona che non a parole, ma nei fatti, osservava i sacramenti, e che credeva che l'Eucarestia fosse effettivamente il Corpo di Cristo?
    Ad ogni modo nella stesura della deposizioni il papa ricorse all'uso di due funzionari affinché fosse evitato qualsiasi intento mistificatorio da parte dei confitenti: era una sorta di controllo reciproco al fine di scorgere eventuali contraddizioni durante il rilascio delle deposizioni stesse. questa procedura non era avvenuta davanti al Tribunale dell'Inquisizioni in cui le dichiarazioni erano stata acquisite non solo sceverandole da ciò che non era utile ai fini dell'accusa, ma anche in maniera imprecisa e sommaria.
    Anche l'ausilio dei notai era differente: questi, nel caso delle deposizioni davanti il Tribunale, erano parte integrante di esso, erano ausiliari del collegio, mentre nel caso della commissione pontificia furono scelti notai selezionati personalmente dai cardinali e che non fossero, in sostanza, parte del collegio d'accusa.

    Clemente V e la sua commissione cercarono di catalogare quelle che erano le accuse mosse ai componenti dell'ordine. Nel primo anno le maggiori e più importanti accuse riguardano 4 punti del teorema accusatori: rinnegamento, oltraggio alla croce, baci illeciti, invito verbale all'omosessualità. Sugli altri tre punti (idolatria, uso di una corda santificata all'idolo, mancata consacrazione del pane eucaristico) l'inchiesta pare aver ottenuto risultati molto scarsi.
    A differenza di quanto avveniva per l'inchiesta regia dove l'unico obiettivo consisteva nel reperire fonti di prova a carico dell'Ordine, per il pontefice era di basilare importanza stabilire se, come e quando i frati si fossero lasciati andare a pratiche turpi come quelle di cui erano accusati.
    I membri della commissione pontificia catalogarono le accuse a seconda del tipo di esse; domandarono agli interrogati perché avevano commesso quei misfatti; se gli atti di oltraggio fossero stati compiuti a parole o anche con il cuore; se vi erano testimoni durante la commissione degli stessi; se fossero stati minacciati di morte o meno; etc.
    I commissari del papa catalogarono diverse confessioni e le ripartirono a seconda del tipo di atto. Ad esempio diversa era la posizione di chi aveva rinnegato Cristo semplicemente a parole perché intimato dai suoi superiori durante il rito d'ingresso all'ordine, rispetto a chi era stato costretto sotto minaccia di morte. Inoltre un conto era l'accusa nei confronti di chi aveva rinnegato l'immagine di Cristo (negavit imaginem), rispetto alla posizione di chi espressamente aveva rinnegato Gesù.
    Un altra domanda posta dai commissari pontifici fu quella riguardante il sacramento del'Eucarestia, e sulle pratiche di sepoltura. Orbene, Béreger Frédol aveva avuto l'occasione di conoscere bene i riti catari che si erano sviluppati nella Linguadoca. A seguito di ciò sapeva che dopo la morte non vi erano funerali per i defunti in quanto ritenevano che il corpo umano fosse una creazione di Satana; per cui solo poco prima del trapasso la cataro moribondo veniva impartito un sacramento speciale chiamato consolamento, basato sull'imposizione delle mani da parte dei oro capi spirituali.
    Questo tipo di accusa non venne preso in considerazione dai commissari regi, ma solo da quelli pontifici: davanti ad essi i confratelli templari dichiararono di impartire la confessione, l'Eucarestia e l'estrema unzione al fratello moribondo, e che il corpo veniva avvolto in un sudario sul quale veniva cucita una croce di panno rosso che era il segno distintivo dell'Ordine.
    Ancora, i commissari del papa interrogarono i Templari se credessero alla natura divina del Cristo, oppure se lo ritenessero un falso profeta; anche in questo caso, su 48 deposizione solo 4 furono dubbie.
    Altra colpa mossa ai confratelli fu quella di sputare sulla Croce Anche su quest'accusa le testimonianze furono diverse e specificamente classificate: c'era chi non aveva ricevuto alcun ordine in merito; chi ne aveva ricevuto uno e lo aveva eseguito per timore delle conseguenze che avrebbe subito; chi eseguì l'ordine ma si limitò a sputare a lato della Croce e non su di essa; chi, infine, pur avendo subito l'ordine, si rifiutò di eseguirlo.
    Anche in tutti questi casi bisognava misurare diversamente il grado di colpevolezza a seconda del grado di volontarietà che sorreggeva l'azione contro la morale cristiana.
    Orbene di tutte la accuse rilevate dai commissari regi, le testimonianze acquisite dal papa e dal collegio cardinalizio erano ben lontane dal realizzare un'ipotesi di paganesimo o di eresia; certo gravi misfatti erano pur sempre stati commessi, ma si era pur sempre ben lontani a ciò che veniva imputato dal re. Ciò, comunque, non poteva rendere il Tempio da conseguenze di carattere disciplinare e da una radicale riforma all'interno di esso.
     
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    Clemente V e la commissione pontificia adesso doveva analizzare le accuse di stregoneria mosse al Tempio. Sembra che il pontefice e i suoi delegati non prendessero nella benché minima considerazione un tale tipo di accuse. I commissari acquisirono testimonianze di alcuni frati che adoravano la testa mummificata del fondatore dell'Ordine, Hugues de Payns, ma sembra che tale pratica devozionale, pur effettuata verso un uomo che non era stato canonizzato, non aveva alcuna rilevanza nell'inchiesta condotta per accertare le gravi accuse mosse ai cavalieri dell'Ordine.
    Si disse anche che la testa che essi adoravano fosse quella del demonio, ma tali atti di venerazione sono stati registrati semplicemente raccogliendo le informazioni fornite dagli imputati, cioè senza fare domande mirate a rilevare se l'oggetto avesse natura demoniaca.
    Un'altra accusa mossa dagli avvocati regi riguardava la mancata consacrazione dell'Eucarestia durante le celebrazioni liturgiche. Mentre questa imputazione fu soltanto accennata nelle udienze tenute davanti i commissari del re, il pontefice entrò più nel dettagli e nel merito soprattutto per scoprire se i frati osservavano le ore canoniche, celebravano messa, si confessavano, osservavano il digiuno penitenziale, etc.; insomma se nei fatti osservavano tutte quelle regole proprie di un ordine monastico. Infatti nelle proprie indagini i commissari del papa, eccezion fatta per un solo caso che avallava la tesi del sovrano, osservavano in maniera rigida le regole fissate nell'ordinario dei canonici del Santo Sepolcro durante la loro vita quotidiana.
    Inoltre alcuni sacramenti, come quello della confessione, avvenivano al cospetto di religiosi estranei all'Ordine, tra cui domenicani e francescani. Proprio per questo papa Clemente volle acquisire anche le reazioni di questi confessori avute dinanzi alle pratiche dello sputo e del rinnegamento, per conoscere e valutare il tipo di penitenza previsto.
    Ma durante gli interrogatori rilasciati dai frati sorge una situazione a fosche tinte per quanto riguarda il rito d'iniziazione nell'Ordine: rispetto ai due casi estremi di colpa grave, nel caso in cui il novizio avesse osservato senza obiettare minimamente l'ordine impartito dal precettore nello sputare sulla Croce o ne rinnegare il Cristo, all'altro, in cui il neofita si opponeva con tutto sé stesso a quella pratico che considerava blasfema, si manifestarono una casistica di fatti intermedi che graduavano a seconda delle situazioni presentate. C'era chi aveva osservato l'ordine ma sputando a lato della croce, chi aveva adempiuto ciò che gli veniva comandato ma solo dietro la minaccia del carcere a vita, chi era stato minacciato con un'arma, chi era riuscito a svicolare il comando, etc. Tutte situazioni che davano luogo ad una diversa graduazione della colpa. La frase ch sovente veniva citata per giustificare gli atti oltraggiosi erano "E' tuo dovere rinnegare" (oportet quod abneges/ oprtet te abnegare); molto spesso il motivo per cui il precettore si impuntava a far osservare il comando consisteva nel fatto che esso costituiva un "punto dell'ordine" (punctum ordinis).
    I commissari del papa tenevano a focalizzare l'attenzione anche sulle singole responsabilità durante il rito d'iniziazione di un novizio; dal momento che era regola fondamentale che chiunque fosse entrato nell'Ordine doveva assoluta obbedienza si suoi superiori, nel corpo e nello spirito, bisognava stabilire se e fino a che punto cessava il libero arbitrio del novizio, e dove cominciava la volontà del precettore o degli altri confratelli che assistevano alla scena d'ingresso dell'adepto.
    Riguardo il gesto indecoroso del bacio, Filippo il Bello aveva puntato l'attenzione non sulla condotta in sé, ma sul fatto che esso costituisse il preludio di pratiche sodomitiche. E l'uso di unirsi carnalmente anche ai propri confratelli era stato espresso anche in una testimonianza rilasciata; addirittura i commissari regi ritengono che la pratica omosessuale fosse prevista normativamente nello statuto dell'Ordine.
    I commissari avevano acquisito testimonianze dei Templari interrogati di pratiche ambigue durante il rito d'iniziazione, ma nessuno più di loro ne ebbe notizia durante la vita nel Tempio. Sia il pontefice che i commissari non credevano assolutamente alle pratiche omosessuali che per giunte erano state normativizzate nello statuto dell'Ordine. Vero è che alcune testimonianze, suffragate anche da dichiarazioni di alcuni dignitari, nel castello templare di Chateau-Pélerin vi erano state alcune pratiche di questo tipo fra alcuni confratelli, unitamente all'uso, parimenti punito, di mangiare di notte nelle camerate. Venutolo a sapere, il gran maestro convocò il suo consiglio invitando tutti i componenti a non farne parola nel prossimo capitolo generale; in più invitò i colpevoli ad Acri. Qui condusse un dignitario nella loro camerata, decise della loro condanna che consisté nel carcere a vita. Uno di loro, chiamato Luca, riuscì a fuggire e si fece musulmano; due di oro furono rinchiusi nelle prigioni del castello di Chateau-Pélerin; uno di loro tentò di fuggire ma venne ucciso, mentre l'altro subì il carcere per lungo tempo.
    L'omosessualità, quindi, non era soltanto vietata dallo statuto dell'Ordine, ma era anche fortemente sanzionata e repressa; questo non toglie che in una grossa comunità, sia laica che ecclesiastica, certi misfatti potessero essere compiuti da singoli individui.
    Lo stesso dicasi per il credo eretico; sia il pontefice, che lo statuto imponeva ai frati la più rigida osservanza del credo cattolico, per cui anche le pratiche eretiche erano sanzionate con le più pesanti pene.
    Se da un lato i commissari avevano smontato le accuse che descrivevano un Ordine dedito alla corruzione, all'eresia, alla blasfemia, al paganesimo, all'idolatria, alle pratiche omosessuali, era pur vero che avevano anche acquisito testimonianze su quei famosi puncta più volte citati dai frati interrogati; però nessuno di loro seppe identificare dove essi erano stati riposti o scritti; non certamente nella Regola del Tempio, in quanto questa se non era comunque pubblica al popolo, di certo era nota, e ne aveva conoscenza anche il pontefice cui era stata consegnata una seconda copia poco tempo prima dal gran maestro.
    I dubbi su questo codice segreto in cui erano stati redatti i puncta non erano nella disponibilità dei cavalieri; infatti una volta entrati nell'ordine né gi statuti, né la Regola veniva rilasciata in copia scritta ai frati, soprattutto agli scudieri, in quanto questi, venendo in rapporti con la gente del popolo, avrebbero potuto divulgarla, anche inavvertitamente, creando un potenziale danno all'Ordine stesso. Desumere i vari puncta dai confratelli era quindi escluso, venendo loro inibito anche la lettura della Regola e degli Statuti.
    Altro elemento di dubbio riguardava la Penitenza, in particolare il fatto che sia il gran maestro che i più alti dignitari pur essendo laici, avevano la facoltà di rimettere i peccati agli altri confratelli. E questo era un fatto di per sé inammissibile per la comunità cattolica. L'erudito prete templare Jean de Fouilley riteneva questa tesi assurda, in quanto era inconcepibile che dei laici potessero impartire la Penitenza e rimettere i peccati. Ciò veniva imputato alla mancanza di cultura dei suoi confratelli che non avendo ricevuto un'idonea istruzione molto probabilmente ritenevano che le massime autorità dell'Ordine potessero impartire anche pratiche liturgiche.
    Diversi frati che deposero davanti al pontefice a Troyes dissero di non aver mai subito violenza durante la loro testimonianza agli avvocati del re; più verosimile fu il fatto che pur non avendo subito violenza, comunque furono intimoriti da quelle subite dai oro confratelli. Ad ogni modo una testimonianza rilasciata sul semplice timore di subire violenza o di essere minacciata di subirne, non costituisce prova attendibile di quanto confessato.
    Etienne de Troyes fu un templare rinnegato e personalmente e volontariamente si presentò davanti l'Inquisitore a rilasciare testimonianze ch confermavano la tesi accusatoria del re; addirittura vi aggiunse anche altri particolari più scabrosi per ingraziarsi i favori del sovrano. Ragion per cui le sua non sono deposizioni attendibili.
    Un altro caso è quello del dotto giurista templare Jean de Fouilley che era stato interrogato nell'autunno 1307 direttamente dall'Inquisitore; il dotto frate, appena entrato nell'ordine, si era lamentato con l'Ufficiale regio di Parigi per l'eccesiva austerità della regola del tempio; durante il processo aveva confessato che era stato necessario celare il vero motivo del malcontento, cioè il rinnegamento di Cristo, perché non poteva mettere per iscritto la verità, temendo una rappresaglia nei suoi confronti da parte dei confratelli.
    Il frate citò la data in cui avrebbe inviato la missiva per uscire dall'Ordine all'Ufficiale regio di Parigi, che confermò di averne avuta notizia. Ma la possibilità di uscire dal Tempio era concessa solo dietro autorizzazione del gran maestro...non si capisce perché sia stata indirizzata all'Ufficiale regio che era un delegato del re di Francia. Quand'anche la richiesta fosse stata inoltrata alla Curia pontificia era pur sempre il gran maestro che aveva l'ultima parola in merito.
    Tutto ciò lascia pensare che anche il dotto templare avesse rilasciato una deposizione confezionata a priori in previsione di un futuro dibattimento contro il Temio; questo lascia pensare che anche Fouilley fosse un infiltrato del re all'interno dell'Ordine per minarne le basi. Se però si analizzano le sue deposizioni si noterà che il giurista del Tempio aveva sull'Ordine una posizione radicalmente diversa da quella di Etienne de Troyes.

    Durante la deposizione davanti la commissione pontificia, Fouilley ammise la pratica del rinnegamento del Cristo, ma negò lo sputo, la sodomia, l'idolatria, l'eresia, i baci e tutte le altre pratiche che venivano addebitate ai frati dell'Ordine.
    Inoltre il papa volle sapere se i cavalieri del Tempio avevano confessato qualcosa sotto la minaccia della tortura o della violenza; alcuni affermarono di no, ma davanti al pontefice dichiararono di essere più liberi di esprimere liberamente le proprie opinioni; altri confermarono quello che avevano asserito davanti la commissione regia. Riguardo, invece, la fondatezza della accusa, diversi sostennero che il peccato di sodomia che veniva riferito durante il rito d'iniziazione era un'affermazione fatta soltanto verbalmente, con le parole, non con il cuore; riguardo il rinnegamento della Croce e lo sputo, diversi ammisero che c'erano stati effettivamente, anche se soltanto durante il momento di ingresso nell'Ordine, e che subito dopo i novizi provavano rimorso e cercavano l'assoluzione sacramentale.
    Sorgono anche dei dubbi sul perché alcuni templari avessero dichiarato una versione davanti gli avvocati regi e un'altra davanti i commissari del papa. C'è chi ha sostenuto, oltre al fatto del timore degli abusi e delle violenze commesse dagli inquisitori, che i cavalieri non volessero essere considerati relapsi, cioè coloro che ritrattavano una precedente confessione; imputando, invece, le pratiche ignominiose ai propri superiori, essi rendevano più difendibili la loro posizione personale.
    Non si comprende, inoltre, perché dopo il rito d'iniziazione alternativo gli adepti andassero a confessarsi: se, come dice chi sosteneva l'accusa, essi dovevano rinnegare Cristo e sputare sulla Croce, non si comprende il motivo per cui subito dopo potevano confessare quel peccato così grave.
    Anche il fatto stesso di confermare certe accuse davanti agli organi dell'Inquisizione onde evitare di essere considerati relapsi, non trova un fondamento concreto se si pensa che lo stesso papa stava investendo le sue energie per cercare di salvare l'Ordine dalla soppressione, cui avrebbe fatto seguito un periodo di rinnovamento interno allo stesso. Si pensi al solo fatto che le deposizioni rilasciate davanti i commissari regi furono giudicate così sospette dal papa da indurlo a sospendere i poteri del'Inquisizione.
     
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    Caratteristica dell'indagine regia era quella di asseverare le responsabilità di ciascun templare per farne derivare una responsabilità dell'intero Ordine; proprio ciò che papa Clemente V. Se atti indegni erano stati compiuti da questo o quel cavaliere, da ciò non si poteva desumere che l'intero Ordine templare fosse corrotto. Ecco perché il pontefice il 2 luglio 1308 tenne un pubblico concistoro in cui ogni singolo frate, chiesto perdono per gli atti impuri commessi, veniva assolto dal papa che unitamente a ciò aveva tutte le intenzioni di riformare la regola.
    Nella redazione dell'inchiesta pontificia a fianco di alcune deposizioni in cui erano stati commessi atti blasfemi veniva posta una crocetta con a fianco la dicitura recipiens: essa stava ad indicare che l'atto incriminato era stato commesso su ordine del precettore ed era verso costui che la commissione del papa indirizzava la responsabilità. Il papa, in sostanza, puntò l'attenzione sulle responsabilità gerarchiche.
    In ogni modo, il fatto che gli atti indecenti fossero stati commessi dietro costrizione non poteva esonerare da qualsiasi colpa il frate che materialmente li aveva commessi; pur se il singolo confratello abnegavit ore, non corde (con la bocca, ma non con il cuore) la responsabilità pur se mitigata c'era pur sempre. Grazie all'illustre canonista Bérenger Frédol si riuscì a spostare inoltre, la responsabilità dei singoli cavalieri su una serie di usanze e tradizioni (puncta) che erano ormai praticate quasi normalmente durante la procedura del noviziato; in questo modo i singoli frati, abiurato ogni atto contro la fede ed ottenuto i perdono della Chiesa, potevano essere assolti.
    L'11 luglio 1308, dopo il pubblico concistoro presieduto dal papa in cui questi aveva assolto dai oro peccati i templari ivi raccolti, i commissari pontifici si riunirono a casa del cardinale Pierre de La Chapelle, nella stessa città di Poitiers dove fecero chiedere perdono a più di 50 templari per i crimini contro la fede commessi, in particolare quello del rinnegamento di Cristo, conferendo loro la piena assoluzione della Chiesa. L'intento del pontefice è chiaro: poiché il rinnegamento del Cristo comporta la scomunica in ogni modo anche se non vi è la partecipazione col cuore, il papa impone ai cavalieri corrotti di abiurare la colpa commessa e così facendo li reintegra nella comunione ecclesiastica. In conclusione, quindi, mediante la confessione dei propri peccati, l'abiura della colpa commessa, il papa reintegrava nella loro dignità di cristiani i templari che avessero commesso questi atti così ignominiosi; nel contempo, dopo l'abiura, il pontefice li dichiarava assolti da ogni colpa. Tutto questo, giova ricordarlo, riguardava per il momento solo i grandi dignitari del Tempio, quelli che costituivano il suo entourage.
    Alla fine della sua inchiesta il papa sembrava più deciso che mai non tanto a sciogliere l'Ordine (il che non era minimamente nelle sua intenzioni) quanto di riformarlo partendo dalla stesura di una nuova regola.
    Dopo la chiusura dell'inchiesta pontificia, il papa, il 12 agosto 1308, emette la bolla Faciens misericordiam, in cui nella narratio, cioé il prologo della bolla, la parte in cui si indicano i motivi della sua stesura, il papa afferma esplicitamente che non era più possibile mettere a tacere la vicenda, dopo che le confessioni dei Templari erano state rese pubbliche, dato che lo scandalo rischiava di spaccare la Chiesa.
    Nella stessa bolla il papa comunque imputa ai cavalieri dell'Ordine, in particolare ai precettori e ai grandi dignitari, delle gravi responsabilità per gli atti commessi durante i riti di iniziazione degli adepti; da notare, inoltre, che delle gravi accuse che gi avvocati regi mossero al Tempio, i cardinali presero in considerazione soltanto due, i più gravi per la Fede cattolica, e cioè il rinnegamento di Cristo e lo sputo sulla Croce. Giunti a tale stato la vicenda non poteva essere taciuta oltre; i cavalieri erano colpevoli, ma se avessero confessato i propri misfatti in piena coscienza, se si fossero mostrati pentiti per i crimini commessi, l'assoluzione poteva essere concessa con formula piena. ed è ciò che effettivamente accadde.
    Dopo tutto ciò, il papa ripristinò i poteri inquisitoriali al Tribunale ma ne limitò fortemente i poteri e le prerogative: stabilì che le ulteriori inchieste dovessero svolgersi in stratta collaborazione con la Curia che all'occasione avrebbe nominati vescovi di sua fiducia; inoltre ad ausilio di questi, furono nominati degli aiutanti stipendiati dalla Curia per tutto il tempo in cui dovesse svolgersi l'inchiesta. Inoltre al fine di decentrare il procedimento giudiziario, i vescovi avrebbero agito nell'ambito delle proprie singoli giurisdizioni episcopali sottraendo, in questo modo, ulteriori poteri al Tribunale dell'Inquisizione. Infine decretò che la decisione sui Templari sarebbe stata presa in un apposito concilio che si sarebbe tenuto a Vienne nel 1310.
    A questo punto entra in gioco anche la "ragion di Stato" della Chiesa. Originariamente il papa aveva stabilito che ferme restando le competenze di ogni singolo prelato ad interrogare i templari presenti ed imprigionati sul suo territorio, l'inchiesta dovesse essere accentrata nell'arcivescovato di Sens. Successivamente cambiò idea, demandando i singoli interrogatori nelle diocesi di appartenenza dei cavalieri; infine optò nuovamente per la diocesi di Sens.
    Il motivo si spiega col fatto che tempo prima il re aveva chiesta che i processi si svolgessero presso le diocesi di Parigi, o di Sens o di Tours: questo, secondo i documenti agli atti, fu deciso perché la maggioranza dei Templari era di quelle zone.
    V'è da aggiungere che il 29 marzo precedente era morto l'arcivescovo dell'importante diocesi di Sens; re Filippo già da quella data faceva continue pressioni sul pontefice per riservare quell'importante sede ecclesiastica a Philippe de Marigny, fratello del suo ciambellano. Fu proprio questo personaggio che nel 1310 ordinò la condanna a morte per rogo di 52 cavalieri, contro ogni diritto, su disposizione del re, irritato nei confronti del papa perché questi aveva ancora una volta rinviato il concilio finale di Vienne dove si sarebbe dovuto pronunciare il giudizio finale del processo.
    Dal momento che il re era riuscito a seguito di forti pressioni sul papa, ad accentrare i vari templari presso le diocesi a lui fedeli (Parigi e Sens in primis) il papa spostò i vari commissari delle varie diocesi locali presso queste zone.
    Malcom Barber ritiene che quasi tutti i commissari delle diocesi di Francia fossero uomini del re; questa tesi non è da accettare in pieno in quanto se il papa avesse voluto condannare in toto l'Ordine avrebbe fatto prima a consegnare tutti i frati imprigionati all'Inquisitore, cosa che non fece. Più che altro è interessante il fatto che dopo aver concesso l'assoluzione dei peccati di cui erano accusati i dirigenti del Tempio (sputo sulla Croce e rinnegamento del Cristo), il papa volesse estendere la confessione e la successiva soluzione anche a tutti i frati del Tempio che avessero commesso i medesimi oltraggi alla fede cristiana.
    Nonostante l'intenzione del papa di salvare l'Ordine, non si poteva negare che Clemente V fosse molto adirato e nello steso tempo costernato per quelle pratiche che minavano alla base uno dei più importanti Ordini della comunità cattolica.
    Nel frattempo gli interrogatori da parte dei commissari pontifici continuavano. Molti di loro evidenziarono confessioni alquanto sospette ma non tanto sulla loro genuinità, ma si palesava il grande timore, se non proprio i terrore, di dire la verità. E questo era manifestamente imputabile alla gravi torture che anni addietro i frati avevano subito durante il processo inquisitorio; la pratica della tortura era sovente adoperata, ma non comportava delle lesioni o menomazioni permanenti, ma il timore di esse induceva comunque i frati a nascondere parte della verità. C'è anche chi aveva chiesto ai cardinali di chiedere una proroga della loro confessione, intimorito per gli abusi, i soprusi e le torture subite negli anni precedenti dai commissari dell'Inquisizione. I cardinali gliela concessero per il giorno successivo, con il monito di non rivelare a nessuno ciò che finora aveva confessato, di non confidarsi con nessuno su ciò che avrebbe dovuto rilasciare e di affidarsi unicamente al Signore affinché lo illuminasse sulla deposizione che avrebbe dovuto rendere per il giorno successivo.
     
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    Clemente V, con l'assegnazione dell'inchiesta ai vescovi locali, di fatto fece un tentativo di sottrarre il grande potere finora prerogativa dell'Inquisizione. L'istituto si sviluppò già all'epoca di Carlo Magno, quando l'imperatore assegnò ai vescovi di effettuare delle investigazioni nelle proprie diocesi. Ma fu nel corso del X secolo che l'istituto si sviluppò maggiormente: quando un vescovo, infatti, si recava una parrocchia per farle visita, tutti i cittadini del paese venivano riuniti in un sinodo locale, mentre poi 7 uomini di stimata reputazione (testes synodales), riferivano al prelato le attività compiute nell'ambito della parrocchia, eventualmente anche quelle in odore di eresia.
    Ma fu soltanto quando nel XIII secolo papa Gregorio IX assegnò il titolo di Inquisitor al provinciale domenicano di Roma, si può dire che il Tribunale dell'Inquisizione fu effettivamente creato. Già due anni prima, nel 1233, il papa aveva emesso una bolla mediante la quale fu prerogativa dell'ordine domenicano quello di scovare, perseguire e punire le manifestazioni eretiche che minavano le basi della Chiesa.
    Molto spesso il potere inquisitoriale e quello vescovile entrarono in rotta; la regola era che dove più debole era l'influenza del prelato, tanto maggiori erano i poteri dell'inquisitore locale che sopperiva tale carenza. In Germani, ad esempio, dove i vescovi avevano anche prerogative laiche oltre che ecclesiastiche, il potere inquisitorio non ebbe largo spazio; in Francia la gerarchia ecclesiastica era alquanto autonoma dal potere di Roma, ma l'esplosione dei vari movimenti ereticali aveva reso necessario l'intervento degli inquisitori. Ciò nondimeno, molto spesso si creavano contrasti e dissidi tra i due organi, quello ecclesiastico e quello dell'inquisizione tanto che nel 1248, durante il concilio di Valence, fi stabilito che i vescovi dovessero pubblicare e osservare le sentenze emesse dagli inquisitori; poiché, però, i presuli non venivano interpellato prima dell'emissione della sentenza, accadeva che i vescovi si ribellavano al decreto inquisitoriale ritenendolo privo di valore.
    Ad ogni modo la tendenza dei vescovi durante il processo contro i Templari, eccezion fatta per alcuni esponenti molto vicini al re di Francia, fu solidale e compatta nel difendere l'Ordine. Vu furono anche taluni casi emblematici come quello del vescovo di Ravenna che ritenne i templari esenti da qualsiasi colpa, mandandoli assolti per insufficienza di prove.
    Durante la celebrazione del concilio di Vienne, la maggioranza dei padri conciliari era orientata ad una soluzione favorevole all'Ordine. C'è da tenere presente che 10 cardinali di nuova nomina eletti da Clemente V, non appena giunse notizia dell'arresto dei templari ad opera del re di Francia, si presentarono dal pontefice rassegnando le loro dimissioni; questo perché non potevano tollerare che il capo della cristianità, il vicario di Cristo in terra potesse diventare un fantoccio del re di Francia, un laico.
    Si reputa che gli abusi e i soprusi perpetrati dagli inquisitori e dai vescovi ad essi vicini dovessero essere fermati; per questo papa Clemente proprio in occasione del processo che vedevano parte in causa i Templari, forte anche delle testimonianza dirette che gli interessati avevano dato durante le deposizioni estorte davanti gli avvocati regi, decise di limitare fortemente i poteri degli inquisitori, stabilendo che l'utilizzo della tortura o del carcere duro per i sospetti di eresia fosse applicato solo di comune accordo tra l'inquisitore e i vescovo, ciascuno dei quali deteneva le chiavi delle prigioni, anche per impedire che gli incarcerati subissero pressioni dall'uno o dall'altro.
    I sospettati avrebbero potuto ricevere vitto e quant'altro loro abbisognasse inviatogli da parenti ed amici, e né era ammessa alcuna diminuzione; fu stabilito dal papa che la carica di inquisitore potesse essere assegnata solo ad ecclesiastici che avessero compiuto 40 anni, mentre la facoltà di tenere armati al proprio servizio fu fortemente revisionata.
    Il pontefice stabilì anche le pene per i contravventori che andavano dalla sospensione per un triennio, fino alla più grave scomunica, che poteva essere revocata soltanto in punto di morte.
    Ma qual era la procedura tipica di accoglienza nell'Ordine di un neofita?
    Il postulante si recava presso una magione, accolto dal precettore al quale rivelava l'intenzione di entrare nell'Ordine. Passato del tempo veniva convocato nella commenda e tenuto in isolamento anche per tre giorni. Uno o due frati gli facevano visita ponendogli alcune domande volta a individuare se vi fossero motivi ostativi all'entrata nell'Ordine e quali fossero le reali intenzioni dell'adepto. Le domande riguardavano la stato del postulante, se fosse fidanzato o sposato, se appartenesse a qualche altre ordine, se avesse preso i voti, se ci fossa una qualche condanna a suo carico, se fosse scomunicato, etc.
    Dopodiché i due inviati del precettore gli riferivano quanto acquisito, il preposto riuniva il capitolo per decidere col consenso di tutti gli altri frati se accogliere o meno il nuovo adepto, stabilendo, in caso affermativo, anche il momento delle recezione nella casa templare.
    Decisa l'accoglienza, veniva fissato il giorno i cui il novizio si presentava davanti al precettore delle commenda o un suo sostituto, il recettore, davanti ai quali veniva nuovamente messo in guardia sulle fatiche (la prima volta lo era stato davanti ai frati inviati dal precettore) e la durezza della vita nell'Ordine; lo si avvertiva inoltre, che persistendo la sua volontà da uomo libero com'era sarebbe diventato in tutto servo e schiavo dell'ordine. A ciò il novizio avrebbe risposto: "Con l'aiuto di Dio, sopporterò qualunque cosa!".
     
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