Storia della proprietà privata

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  1. Demodi
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    Introduzione
    La proprietà privata rappresenta uno dei principali oggetti del mio interesse speculativo, perché sospetto che la sua comprensione sia determinante per comprendere il nostro attuale sistema sociale e politico.
    La mia personale opinione è che non si possa adeguatamente comprendere la proprietà privata se ci si limita ad un approccio esclusivamente di tipo giuridico, perché la proprietà è esistita anche prima che si conoscesse il diritto. La comprensione della proprietà non può prescindere dalla conoscenza del suo sviluppo storico, ma non a partire dal diritto romano, come fa ad esempio Wikipedia: bisogna partire dalle società di cacciatori-raccoglitori.
    Il problema è che la letteratura sull'argomento è sorprendentemente povera, almeno questa è stata la mia impressione, e non è facile trovarvi informazioni esaustive. Anche per questo, lo studio che qui vi presento è una sorta di collage, largamente imperfetto, di notizie che ho raccolto qua e là. Niente di che.
    Da parte mia mi sono sforzato di resistere alla tentazione di legare i vari frammenti di conoscenza, cercando di essere il più possibile obiettivo, ma non so se ci sono riuscito.
    Confido che qualcuno di voi voglia aiutarmi non solo a colmare le mie lacune e a correggere i miei errori, ma anche a trovare buone fonti bibliografiche.

    La proprietà nella Preistoria
    L’idea di proprietà privata della terra è necessariamente assente nella preistoria, in quanto incompatibile con la pratica del nomadismo. Questo fatto è noto da tempo. Ne parla, per esempio, l’abate de Mably in un’opera, Della legislazione, pubblicata nel 1776: “se rimontiamo fino alle origini delle nazioni, i documenti non attestano forse che in origine esse erano nomadi?” (1965: 228). E se erano nomadi, come potevano essere proprietari di terre o case? Ne parla anche il più celebre Adam Smith, il quale, nella sua La ricchezza delle nazioni pubblicata nello stesso anno, afferma che nelle società di cacciatori-raccoglitori il lavoro è semplicemente l’attività attraverso cui un individuo si procura il cibo e le condizioni di sicurezza, mentre l’idea di proprietà privata della terra non è ancora concepita, né è avvertita l’esigenza di creare un apparato amministrativo, giudiziario o militare, ma ogni individuo tiene per sé l’intero frutto del proprio lavoro (Smith 2006: 133). Gli scambi sono soltanto di natura psicologica e umana, e la gerarchia sociale si fonda essenzialmente sulle qualità personali (abilità, forza, sesso) e sull’età (di norma, prevale l’anzianità). In sostanza, "il termine «proprietà» si addice poco alle società primitive, nelle quali il possesso temporaneo corrisponde soprattutto a un diritto di godimento o di utilizzazione" (Rivière 1998: 97).
    Secondo Marx, la proprietà si afferma solo dopo la diffusione della pratica dell’agricoltura e, almeno inizialmente, si deve trattare non di un diritto individuale, bensì di una proprietà dell’intera comunità tribale, la quale, peraltro, occupa quel tanto di terra che è in grado di lavorare e che è sufficiente per consentire la conservazione e la riproduzione dei propri membri. Di norma, nei villaggi neolitici, fatta eccezione per l’abbigliamento, gli utensili e le armi di uso personale, tutto il resto appartiene al dio tutelare ed è semplicemente amministrato dal sacerdote o dal re. Il contadino lavora la terra che il dio gli ha assegnato e si comporta in modo solidale con gli altri membri della comunità, ciascuno dei quali svolge un ruolo particolare, che è quello assegnatogli dallo stesso dio o dal suo rappresentante in terra. Essendo di proprietà di un dio, in realtà la terra non appartiene a nessun individuo particolare ma all’intera comunità che vi risiede, anche se è amministrata da un rappresentante umano del dio stesso.
    La proprietà collettiva del suolo si conserva a lungo nel tempo “e anche quando passa ad essere proprietà privata il rapporto dell’individuo verso di essa si presenta mediato dal suo rapporto con la comunità” (Marx 1970: II, 449). Insomma, la terra è di tutti, ma di fatto essa appartiene a chi la lavora, a condizione che sia anche in grado di difenderla da eventuali malintenzionati, interni o esterni alla comunità, che potrebbero tentare di appropriarsene. Di norma, all'interno della stessa tribù vale il principio che il lavoro e i beni altrui vanno rispettati, anche se, finché non si dispone di una milizia armata, in caso di violazione di questo principio, la comunità può intervenire solo con la condanna morale e l’isolamento del reo.
    Lo stesso principio vale anche, e a maggior ragione, nei confronti di terzi, ma con una differenza: se dei nemici esterni insidiano la terra coltivata di un clan, è possibile che l'intera tribù si compatti sotto la guida di un condottiero e si disponga alla guerra di difesa, ma solo per il periodo necessario all'allontanamento del pericolo, cessato il quale tutto ritorna come prima. In realtà, almeno fino al mesolitico, nessuna tribù di agricoltori può permettersi di mantenere un apparato militare permanente. La guerra rappresenta perciò un evento straordinario e vi si ricorre solo quando non vi siano spazi vuoti in cui insediarsi.
    (continua)

    Edited by Demodi - 26/12/2011, 15:22
     
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  2. Demodi
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    La proprietà nella Protostoria
    La situazione comincia a cambiare nel corso del neolitico, quando, a causa dell'incremento demografico legato alla diffusione dell'agricoltura, gli spazi vuoti si fanno sempre più rari e il rischio di scontri armati fra tribù diventa endemico. La nuova situazione è tale che chi non è forte abbastanza sa che, presto o tardi, verrà espropriato della sua terra e dei suoi beni. Da questo momento la proprietà privata viene a dipendere dai rapporti di forza. “Di fatto la proprietà naturale è tollerata solo finché manca la forza per rovesciarla e non dura oltre il momento in cui uno più forte se ne impadronisce. Creata da una forza arbitraria, essa deve in ogni momento temere una forza più potente” (Mises 1990: 61-2). La proprietà si conquista con la forza e si difende con la forza. Queste condizioni di cronica insicurezza spinge i singoli clan e le singole tribù a organizzare una qualche forma di difesa permanente, se vogliono sopravvivere. Nascono così i villaggi fortificati, o chiefdom, in cui è presente una figura di capo, prima sconosciuta.
    Trovarsi uniti sotto il comando di un capo non offre ai clan solo la garanzia di una più efficace azione di difesa collettiva, ma anche la forza necessaria per compiere azioni offensive a danno delle comunità vicine. In effetti, un capo può riunire sotto di sé un certo numero di clan o di tribù solo a due condizioni: o per difendere le loro terre da eventuali minacce esterne o per organizzare una guerra di aggressione, in questo secondo caso con la promessa che, in caso di vittoria, la terra conquistata verrà distribuita fra i clan. È così che la guerra si avvia a diventare una prassi ordinaria.
    In una prima fase, i nemici vinti vengono sterminati, ad eccezione delle femmine, che vengono invece integrate allo scopo di riparare, il più rapidamente possibile, le perdite umane dei vincitori, ma, allorché la guerra diventa una pratica abituale, comincia a diffondersi un’idea nuova: rendere schiavi i nemici e costringerli a lavorare la terra a favore dei nuovi padroni, ossia dei conquistatori. Con il frutto delle terre e il lavoro degli schiavi, i capi prendono al loro servizio funzionari e artigiani, fanno erigere templi e palazzi ed esercitano un potere assoluto, che viene abitualmente posto sotto l’egida di un dio tutelare. Nasce così la città.
    A guerra finita, il condottiero vittorioso non solo distribuisce ai clan le terre conquistate come aveva loro promesso, ma s’impegna anche a tutelare il loro diritto di proprietà, servendosi a tale scopo di una milizia armata che rimane costantemente al suo servizio. Da questo momento, la distribuzione della proprietà privata non dipende più solo dall’uso indiscriminato e arbitrario della forza o dalla guerra, ma anche dalla volontà del sovrano o dalla legge dello Stato, il che comporta la “completa separazione tra lavoro e proprietà” (Marx 1970 II, 142) e l’istituzionalizzazione della proprietà come diritto. Possiamo dire, in buona sostanza, che il diritto di proprietà discende dalla guerra.
    Dai sudditi i capi esigono un tributo, che può essere un lavoro o un bene materiale, e chi non ci sta, o non è in grado di pagare il suo debito, ha due possibilità: o tentare la fuga e sparire o organizzare un gruppo di potere alternativo, di solito una banda armata, che per lo più è destinata a vivere di espedienti e di rapine ai margini e a danno della città. Ora il condottiero è diventato monarca e la sua volontà ha valore di legge. Nasce così lo Stato.
    (continua)
     
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  3. Demodi
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    La proprietà nelle Civiltà
    Insieme allo Stato si diffonde nel mondo l'idea di nazione o di popolo, intesi come entità unitarie, dotate di una cultura propria, di costumi propri e, soprattutto, di una ben determinata forza militare. Nascono così le prime Civiltà.
    Su tutto (sulla città, sullo stato e sulla civiltà) domina il principio di forza. Non importa chi sia il più forte: può essere chi dispone della popolazione più numerosa, o chi sa organizzarsi meglio, o chi può contare su armi più evolute o su generali più abili, o semplicemente il più fortunato, in ogni caso, chi vince è sempre il migliore, e il migliore ha il diritto di imporre la sua legge, mentre, al contrario, chi soccombe è bene che rimanga sottomesso.
    L'esperienza però dimostra che la forza è un mezzo molto dispendioso e poco adatto a rendere stabile una conquista o a tutelare la proprietà. Da qui nasce l’esigenza di giustificare i rapporti di forza con motivazioni di tipo culturale. Due sono i principali mezzi di legittimazione della proprietà privata e dello Stato: la religione e l'ideologia. Alla prima fanno ampio ricorso gli ebrei, che fanno risalire la proprietà della terra alla prescrizione dell’unico vero Dio (Num 33, 53-4); alla seconda i romani, che rivendicano il proprio diritto di dominare popolazioni di rango inferiore. In entrambi i casi il principio di forza rimane ben evidente. Esso però cessa di essere impiegato come mezzo esclusivo per dirimere le contese e diventa uno strumento alternativo e, almeno in teoria, secondario; uno strumento che, a parole, si pone al servizio di un dio o di una legge, ma che, in realtà continua ad essere primario e fine a se stesso.
    (continua)

    Edited by Demodi - 28/12/2011, 09:04
     
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  4. Demodi
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    La proprietà nel Mondo greco-romano
    Benché la proprietà privata sia già affermata da tempo e ampiamente legittimata dalla religione e dalla ideologia, nel V-IV secolo vi è ancora chi riesce a cogliere il nesso di mutua relazione fra proprietà e guerra. Uno di questi è Platone. Vedendo nella proprietà la causa prima della guerra e, dunque, un pericolo per la pace, oltre che una fonte di discordia sociale, egli immagina una Repubblica fondata su un comunismo di vertice, ossia sulla comunità egalitaria di filosofi, che dovranno governare la polis senza essere distratti da interessi personali e, pertanto, rinunciando a qualunque proprietà (Rep. 415a, 417a-b, 465c-d). Diverso, ma non del tutto dissimile, è il punto di vista di Aristotele, che, pur riconoscendo all’uomo il bisogno di proprietà, che gli consenta di condurre un’esistenza dignitosa (Et. Nic. 1178b, 35), si dichiara contrario tanto alla ricchezza smodata quanto alla povertà estrema e indica, come condizione ideale per una comunità politica, quella in cui tutti i cittadini appartengano ad una fascia sociale media (Pol. 1261ss). Riserve sulla proprietà vengono espresse anche da cinici e stoici, presso i quali è diffusa la consapevolezza che, nella condizione originaria, quando cioè ancora non si conoscevano né la proprietà né le strutture di potere, gli uomini vivevano in pace e in armonia (Seneca, Epistola 90, 37ss; Ovidio, Metamorfosi I, 89ss; Tacito, Annales III, 26). È l’avidità degli uomini, sostengono, a dare origine alla proprietà privata. Anche Cicerone, che pure riconosce al cittadino il diritto alla proprietà, acquisito per occupazione, per conquista o per legge, non può fare a meno di ammettere che esso non è un fatto di natura (De Off. I, 7).
    Nonostante queste prese di distanza, nella pratica la proprietà continua a disegnare società duali, ovvero società in cui si possono distinguere nettamente almeno due classi di cittadini, ciascuna detentrice di diritti diversi: cittadini di serie A e di serie B, patrizi e plebei, aristocratici e popolani, nobili e masse, forti e deboli, proprietari e nullatenenti, privilegiati ed esclusi. I primi coltivano la cultura favorevole alla proprietà, una cultura che si perde lontano nel tempo e che dà corpo ad una Tradizione, cui essi tendono ad attribuire un carattere quasi sacro. Appellandosi ai valori della tradizione, i ricchi possidenti intendono giustificare lo status quo e l’ordine sociale costituito, mentre i poveri desiderano il cambiamento e il disordine. Il dissidio fra le due compagini è così profondo e insanabile da degenerare talvolta in tumulti, sollevazioni e scontri violenti, il che induce le classi dominanti ad escogitare opportuni rimedi.
    In generale le classi dominanti ricorrono alla repressione o alla legge o ad entrambi. Ricordo per tutte la legge emanata dall’imperatore Domiziano, la quale stabilisce che il mestiere dei padri si eredita: il figlio dello schiavo rimane schiavo e quello del contadino non potrà mai aspirare a divenire un ricco proprietario terriero, cosa che, invece, spetta al figlio del nobile. La conseguenze è che ciò che uno sarà nella vita non dipende dai propri meriti, ma viene stabilito dalla legge e garantito con la forza. All'atto pratico, con questa legge non si intende di certo tutelare la povertà, perché la povertà non ha bisogno di essere tutelata: si intende tutelare il diritto proprietario.
    Nei confronti di una realtà così cruda, il pensiero degli studiosi continua ad esprimere posizioni di critica nei confronti della ricchezza estrema e, correlativamente, anche della povertà estrema. È soprattutto dal cristianesimo che si levano i più severi moniti contro il rischio legato all’eccessiva concentrazione della proprietà. I Vangeli demonizzano la ricchezza (Mt 6,19; 19, 23-4; Lc 16,13) e le prime comunità cristiane praticano la solidarietà caritatevole e la comunione dei beni (At 2,44-5; 4,32). Coerentemente con questi princìpi, i pensatori cristiani del II-III secolo, come Clemente Alessandrino (Paedagogus III,6) e Tertulliano (De patientia 7), esprimono parole di disprezzo per il denaro e ispirano il monachesimo.
    Già agli inizi del IV secolo, le esortazioni evangeliche a non accumulare ricchezze su questa terra sono in gran parte dimenticate e i cristiani tendono a riconoscere il diritto alla proprietà privata delle grandi famiglie, ma non si tratta di un riconoscimento pieno. In realtà i Padri della chiesa continuano a manifestare le loro riserve. “Secondo la concezione patristica la proprietà privata della terra è inconcepibile, come inconcepibile è la proprietà privata dell’aria e delle luce del sole. L’aria, la luce e la terra non appartengono agli uomini ma a Dio; gli uomini possono soltanto averla in uso” (Kazhdan 1995: 64). Sant’Ambrogio e sant’Agostino ritengono che la proprietà sia una conseguenza del peccato originale e perciò vedono in essa un male inevitabile e necessario. Ma, così facendo, essi finiscono per giustificare la proprietà e riproporre quel modello di società duale, che ha caratterizzato quasi tutte le società dal neolitico in qua.
    (continua)
     
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    La proprietà nel Medioevo

    Alto Medioevo
    Nel corso dei gravi disordini che accompagnano la caduta dell’impero romano, molti capi e condottieri barbari conquistano la maggior parte delle terre che prima appartenevano a Roma e ne diventano i nuovi padroni, ma con loro il potere centrale si indebolisce e i proprietari di latifondi possono comportarsi come piccoli sovrani. Questi signori tendono ora ad organizzarsi in modo autarchico e indipendente, producendo da sé il fabbisogno per la sussistenza e la difesa, ma tendono anche ad insidiare le terre ai vicini e ad ingrandire le loro proprietà.
    Il limite ad un ampliamento indefinito della proprietà è posto dalla consuetudine in voga presso i romani e i popoli germani di dividere il patrimonio fra tutti i figli. Questo limite viene abbattuto intorno al IX secolo dai Franchi, i quali introducono i princìpi di primogenitura e di inalienabilità. “La legge della primogenitura impedì che [le terre] fossero divise per successione; l’introduzione dell’inalienabilità impedì che fossero frazionate in piccoli lotti mediante la vendita” (Smith 2006: 509). Come risultato di queste operazioni si ha l'affermazione dell'idea di proprietà come patrimonio di famiglia, trasmissibile in eredità di padre in figlio e ampliabile all'infinito.

    Basso Medioevo
    “I primi, decisivi passi verso una legittimazione definitiva della proprietà privata risalgono a Tommaso d’Aquino” (Euchner 1997: 105), ma è Bartolo da Sassoferrato (1314-57) ad esprimere il moderno principio giuridico, che verrà poi ripreso dal Codice napoleonico e dalle Costituzioni contemporanee, secondo cui la proprietà è un diritto sancito dalla legge. Non si tratta di una novità assoluta ma, più semplicemente, di un ritorno a quella che era stata la posizione di Cicerone: anche se non è un fatto di natura, la proprietà è un diritto di legge e lo Stato ha il dovere di tutelarla.
    Il significato profondo della proprietà dipende ora da che cosa s’intende per «legge». Se la legge origina dalla natura o da Dio, allora la proprietà è un diritto naturale o divino e, dunque, indiscutibile; se invece la legge origina dalla volontà umana, allora la proprietà è un diritto creato dall’uomo e, dunque, opinabile.
    In virtù della loro profonda religiosità, i medievali sono poco propensi ad accettare questa seconda ipotesi e continuano a credere che il feudo non appartenga solo al feudatario, ma anche, in ultima analisi, all’imperatore e a Dio; una posizione, questa, molto vicina a quella degli antichi egizi, ma anche a quella degli ebrei.
    (continua)
     
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    La proprietà nell'Età Moderna
    Ancora nella prima età moderna, la proprietà privata continua ad essere vista, almeno in parte, come un male necessario di cui servirsi con moderazione. Così, Machiavelli (1469-1527) considera l’eccessiva brama di ricchezza nociva per lo Stato, Tommaso Moro (1478-1535) propone un modello di società, fondato sull’uguaglianza dei cittadini e sull’abolizione della proprietà privata e del denaro, Tommaso Campanella (1568-1639) descrive un modello sociale fondato sull’abolizione della proprietà privata, sulla vita comunitaria e sulla figura-guida di un principe-sacerdote (Bravo, Malandrino 1994: 142). Le posizione dei tre studiosi si inseriscono in contesti di ragionamento molto diversi: nel primo caso, si tratta di semplice opportunismo politico, negli altri due casi di un pensiero più puro e fine a se stesso che, proprio per questo, merita un breve approfondimento.
    Tommaso Moro è un grande uomo politico nell’Inghilterra dei Tudor, in un periodo, quello compreso fra il 1504 e il 1532, in cui il paese è in fase di crescita economica e demografica, grazie anche all’espansione commerciale, che vede affacciarsi sulla scena nazionale e internazionale nuovi soggetti politici, mentre la società è ancora di tipo feudale e incentrata nella figura del sovrano, che pretende di detenere il monopolio del potere in tutti i campi, compreso quello religioso, a fronte di una massa popolare costretta a vivere ai limiti della sussistenza. Grazie ad una personalità che coniuga un’acuta intelligenza a sani princìpi morali, Moro capisce che quella società è profondamente ingiusta e che è possibile immaginare una società migliore. Come debba essere questa società migliore, l’uomo politico lo spiega in un’opera rimasta giustamente celebre, Utopia, pubblicata nel 1516, in cui traspare la consapevolezza dell’autore che “non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata” (1981: 51).
    Tommaso Campanella è un domenicano di Stilo, in Calabria, che sogna una monarchia universale improntata non dagli interessi personali del principe, come voleva Machiavelli, ma dai princìpi del cristianesimo, che trovano applicazione pratica nel lavoro per tutti, nella parità fra uomo e donna, nell’istruzione diffusa, nella pianificazione dell’economia, nello spirito di solidarietà cristiana.
    Ciò che crea perplessità non è il principio di proprietà in sé, che è ormai accettato pressoché da tutti, quanto l’evidenza che la grande proprietà fondiaria è ottenuta con la violenza “e conservata soltanto con la violenza” (Mises 1990: 415). “Nella società feudale – aggiunge Mises – i più forti riescono a conservare la loro proprietà solo finché dispongono della forza; i più deboli non hanno che una proprietà precaria, poiché, avendola ottenuta grazie ai più forti, si trovano in loro soggezione. I più deboli non godono di alcuna protezione giuridica per la loro proprietà” (1990: 415). La dipendenza della proprietà dal principio di forza viene indicata come la principale causa dell’iniqua distribuzione della proprietà e del potere. Il circuito è obbligato e inesorabile: la forza conferisce potere e il potere produce ricchezza, la quale, a sua volta, incrementa sia la forza che il potere. È all’interno di questo circuito che orbita il principio di proprietà, che, non essendo direttamente legato ai meriti personali, genera ingiustificate ineguaglianze sociali. La proprietà è dunque, in definitiva e per sua stessa natura, contraria ad ogni principio etico di equità e giustizia.
    Questo atteggiamento di prudente sospetto nei confronti della proprietà privata trova il suo fondamento in due presunte innegabili verità: da un lato la constatazione che un minimo di ricchezza è necessario al fine di consentire alla persona una vita dignitosa, dall’altro lato l’evidenza che la concentrazione di ricchezza oltre un certo limite suscita discordie e guerre, ed è quest’ultimo punto che alimenta il dibattito politico sulla proprietà privata e ne impedisce il consenso universale.
    Bisogna aspettare la seconda metà del Seicento per assistere al superamento di questa concezione. Il paese dove ciò avviene è l’Inghilterra. Qui, prima della Gloriosa rivoluzione (1688), il re esercita un potere pressoché assoluto e, in pratica, si comporta come se il paese fosse di sua proprietà. È il re che provvede a distribuire i feudi ai propri vassalli, i quali però non conoscono le tecniche agricole. Sono i contadini che conoscono la terra e la coltivano, ma non hanno ragioni per farla fruttare al massimo, perché la terra è del signore. Quando il re toglie il feudo ad signore per assegnarlo ad un altro, in realtà, quel passaggio di proprietà non interferisce in alcun modo sulla produttività della terra stessa, né con le entrate fiscali della corona. Questa situazione comincia a cambiare allorché, con l’espandersi della attività commerciali, un crescente numero di persone si arricchisce al punto di poter acquistare le terre che il re va confiscando alla nobiltà e alla chiesa.
    I nuovi proprietari terrieri hanno interesse a conoscere le proprie terre per farle fruttare e, in effetti, la produzione agricola aumenta, con vantaggio sia per i proprietari stessi sia per la corona che, oltre ad incassare il denaro della vendita delle terre, può incrementare le entrate del fisco. A perderci sono i nobili vassalli, che tentano di reagire, ma devono fare i conti con i parvenu, i quali godono della sostanziale complicità del re, apparentemente estorta grazie alla pressione che il Parlamento esercita su di lui. Alla fine, avviene che la grande nobiltà comincia a declinare, mentre si rafforza il parlamento e la piccola nobiltà dei parvenu (gentry), e saranno proprio costoro a spingere il governo ad elevare la proprietà privata a diritto fondamentale, sacro e inviolabile (cf. Rajan, Zingales 2004: 177).
    Questo radicale cambiamento di mentalità è ben espresso nel pensiero di Bodin e Locke. La tesi dei due studiosi, che descrivono la proprietà come un fatto di natura e un diritto primario del cittadino, trova ampia diffusione nei paesi ad economia capitalistica e finisce per rappresentare un momento topico nella storia dell’umanità. Così, “La proprietà individuale di beni materiali è a partire dal XVII secolo annoverata tra i diritti naturali dell’uomo” (Facchi 2007: 36). Da questo momento, ma solo da questo momento, si moltiplicano nel mondo quanti vedono nella ricchezza il bene sommo e nel capitalismo liberista il migliore dei sistemi economici possibili.
    Particolarmente importante è il pensiero di Locke (1632-1704), che è considerato un classico punto di riferimento di tutte le politiche liberali e la cui influenza è ancora viva e pulsante ai giorni nostri. Tre sono i punti da cui parte Locke: il primo, che Dio ha dato la terra “in comune a tutta l’umanità” (1998: 25); il secondo, che ogni uomo è per natura padrone di se stesso e del proprio lavoro; il terzo, che la terra che l’uomo lavora gli appartiene per natura. “Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani sono propriamente suoi. Qualunque cosa, allora, egli rimuova dallo stato in cui la natura l’ha prodotta e lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà” (1998: 27). Locke rifiuta espressamente il principio secondo il quale la proprietà privata derivi dal consenso degli uomini. Afferma invece che essa è un diritto naturale, ma a tre condizioni. La prima, che ciascuno abbia ciò a cui riesce a badare col proprio personale lavoro: “Quanto terreno un uomo dissoda, semina, bonifica e coltiva, e di quanto può usare il prodotto, tanto è di sua proprietà” (1998: 32). La seconda, che il bene posseduto sia correlato ai bisogni del proprietario: “tutto ciò che va oltre questo è più di quanto gli spetta e appartiene ad altri” (1998: 31). La terza, che ne rimanga abbastanza anche per gli altri: “Nessuno può ritenersi danneggiato dal fatto che un altro beva, sia pure a grandi sorsi, se ha un fiume intero di quella stessa acqua per saziare la sua sete” (1998: 33).
    Fin qui la tesi di Locke sembra lucida, equilibrata e parzialmente in linea con quanto sostenuto dagli antichi. Essa però lascia aperta una questione: si possono giustificare, e fino a che punto, quegli immensi imperi finanziari personali che caratterizzano il mondo capitalistico? Se la proprietà è legata esclusivamente al lavoro e ai meriti personali, essa non solo avrebbe poche probabilità di diventare molto grande, ma sarebbe anche costantemente in pericolo a causa delle imponderabili e imprevedibili vicissitudini della vita di ciascuno, e si esaurirebbe con la morte del proprietario. Al riguardo, Locke fornisce una risposta davvero sorprendente. Dopo l’invenzione della moneta, osserva il filosofo, agli uomini è dato di acquistare e possedere molta più terra e produrre molti più beni di quelli che riescono a consumare. Ciò, spiega il Nostro, dev’essere accettato come un fatto positivo, dal momento che, nelle grandi proprietà la produttività viene incrementata a tal punto che alla collettività nel suo insieme ne deriva comunque un vantaggio (1998: 36, 50).
    Anche se non appare adeguatamente supportata né da verifiche empiriche, né da argomentazioni teoriche adeguate, e anche se è articolata in un modo che a molti potrebbe apparire alquanto oscuro e poco convincente, questa risposta di Locke finisce per assurgere a fondamento del pensiero liberale e del capitalismo. In particolare, la concezione lockiana viene recepita nel regno di Francia dove assurge a principio basilare quasi sacro. “Nella cultura francese del Settecento la proprietà privata viene comunemente esaltata come diritto naturale, da garantire senza (quasi) limiti” (Facchi 2007: 47). Hume, Kant ed Hegel si muoveranno su questa scia e confermeranno l'idea della proprietà privata come diritto fondamentale, sia pure con argomentazioni diverse.
    Non tutti però la pensano come Locke. Secondo Rousseau, ad esempio, il primo che recintò un terreno reclamandone il possesso dimenticò che i frutti della terra sono di tutti e che la terra non appartiene a nessuno (Discorso sull’origine dell’uguaglianza, II). Per il ginevrino, l’affermazione del principio di proprietà privata, segnando l’inizio della società civile e dell’ineguaglianza fra gli uomini, è da considerare un fatto sostanzialmente negativo, ancorché necessario (Economia politica, III). Allo scopo di minimizzare le inevitabili conseguenze negative della ineguale distribuzione delle ricchezze, Rousseau ammonisce che “nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi” (Contratto sociale II,11). La questione ideologica sulla proprietà privata rimane dunque aperta e continua ad animare il pensiero moderno e contemporaneo, che intorno ad essa assume posizioni diverse e contrapposte.
    L’idea che la proprietà sia un fatto di natura continua ad essere respinta da molti pensatori, fra cui Pufendorf (1632-94), Morelly (XVIII secolo), Mably (1709-85), Diderot (1713-84), Paine (1737-09), Hélvetius (1715-71), che vedono in essa semplicemente una convenzione umana con pregi e difetti.
    Morelly vede nella proprietà una causa di criminalità e un ostacolo alla felicità delle persone, a tal punto da augurarsene la fine: “Togliete di mezzo la proprietà, lo ripeto senza stancarmi, e voi annullerete per sempre mille accidenti che conducono l’uomo a eccessi di disperazione. Io dico che, libero da questa tirannia, è assolutamente impossibile che l’uomo sia trascinato a delitti, che sia ladro, assassino e conquistatore” (1952: 119). Lo studioso francese immagina allora una società dove “niente apparterrà singolarmente o in proprietà ad alcuno, eccetto le cose di cui si farà uso effettivo sia per i bisogni e piaceri personali, che per il quotidiano lavoro” (1952: 143).
    Thomas Paine (1796), “ebbe a sostenere che «è solo il valore delle migliorie apportate, e non la terra in sé, che appartiene al privato. Ogni proprietario di terre coltivate è dunque debitore verso la comunità di una rendita fondiaria (…) per la terra che tiene per sé». Dal fatto, a suo parere incontrovertibile, che la terra allo stato naturale e incolto sia proprietà comune della razza umana, Paine deriva l’obbligo, per chi si appropria di (parte di) questa, di rimborsare gli altri, versando una certa somma a un fondo nazionale” (Del Bò 2004: 105).
    (continua)
     
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    La proprietà nell'Età Contemporanea
    Thomas Jefferson (1743-1826) costituisce un caso a sé, molto interessante. Come Locke, anche Jefferson riconosce tre diritti fondamentali, ma, a differenza di Locke, sostituisce il diritto di proprietà con quello della ricerca della felicità. Jefferson non è contrario alla proprietà, ma solo alla proprietà che si trasmette di generazione in generazione e può dare origine a pericolose concentrazioni di ricchezza, mentre è favorevole alla proprietà della persona individuale. Ecco cosa egli scrive in una lettera a James Madison nel 1789: “Sono partito dal presupposto che «la terra appartenga in usufrutto ai viventi» e che i morti non abbiano né poteri né diritti su di essa. La porzione di essa occupata da un individuo cessa di essere sua quando egli stesso cessa di esistere, e torna alla società” (da Barbato 1999: 64-5).
    Le voci critiche più decise contro la legittimità del principio di proprietà privata si levano dall’area socialista, dove, tanto Babeuf (1760-97), per il quale la proprietà è “la causa di tutti i mali sulla terra” (Buonarroti 1971: 260), quanto alcuni suoi allievi, come Blanqui, Cabet e Owen, sostengono che è opportuno abolire la proprietà privata se si vuole realizzare una società migliore. Analoga la posizione di Fourier (1772-1837) e Proudhon (1809-65), i quali, più che l’abolizione della proprietà, auspicano una profonda riforma della stessa. Proudhon, a dire il vero, non è contrario alla proprietà in quanto tale, ma solo alla proprietà che assicura un reddito senza lavoro. Il capitalista si appropria di una parte del valore del lavoro di ciascun operaio e, così facendo, si arricchisce senza lavorare. È questo, in definitiva, il senso della frase «la proprietà è un furto». Per Proudhon, l’unica fonte di reddito è il lavoro e ogni reddito che non derivi dal lavoro è una forma di appropriazione illegittima, un furto, un privilegio di alcuni a danno di altri, reso possibile solo grazie alle leggi e alla forza dello Stato.
    Nemmeno Marx (1818-83) è contro la proprietà in sé: la proprietà acquistata col lavoro personale va bene, mentre andrebbe abolita la proprietà capitalistica, che è frutto del lavoro altrui. Per lo studioso, lo scopo dello Stato liberale riflette gli interessi della classe dominante, tra cui quello di tutelare la proprietà. Eliminando la proprietà, lo Stato perderebbe la sua funzione principale e si estinguerebbe, consentendo così al proletariato, dopo aver assunto la proprietà borghese ed essere diventato classe dominante, di realizzare la cosiddetta «conquista della democrazia». Secondo Marx, insomma, benché sia stata ritenuta necessaria per l’esercizio della libertà umana, la proprietà privata ha finito per rappresentare un simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la sua abolizione, resa possibile dal comunismo, darà luogo ad un mondo più umano.
    Il diritto proprietario è difeso con forza da Talcott Spencer (1820-1903), il quale vede nel successo economico e nella proprietà i segni tangibili del successo personale conseguito legittimamente in un clima di competizione generale. Anche Hayek (1899-1992) è favorevole alla proprietà privata, nella quale vede il “primo elemento della libertà” (1999: 195). Secondo lo studioso austriaco, l’istituto della proprietà si è evoluto spontaneamente e rappresenta “la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti” (1994: 136). Esso perciò deve essere preservato nell’interesse di tutti, anche di coloro che ne sono privi, “poiché lo sviluppo dell’intero ordine di azioni da cui dipendono le moderne forme di civiltà è stato reso possibile solo grazie all’istituzione della proprietà medesima” (1994: 151). Per Hayek, insomma, come per il pensiero liberale in generale, la proprietà è la condizione necessaria per un sistema economico basato su soggetti individuali liberi, responsabili e razionali: se non ci fosse la proprietà, nessuno sarebbe sicuro di nulla e nessuno sarebbe disposto a coltivare la terra nel modo migliore.
    A differenza di un certo pensiero tradizionale, che nella proprietà privata è propenso a scorgere una fonte di dominio dell'uomo sull'uomo, Horkheimer e Adorno affermano che non è tanto la proprietà privata a generare l’atteggiamento di dominio, quanto l’atteggiamento di dominio a generare la proprietà privata. Infatti, l’abolizione della proprietà privata non elimina la logica di potenza e le varie forme di dominio, come avrebbe dimostrato la realtà storica del comunismo sovietico. Resta comunque il fatto, secondo Béteille, che la proprietà privata è “il più importante segno di diseguaglianza in molte società” (1981: 36).
    Può sembrare sorprendente il fatto che la chiesa, anziché schierasi dalla parte dei pensatori socialisti, che più si avvicinano ai principi evangelici, rimanga vicina alle posizioni liberali. Leone XIII (Rerum novarum) e Pio XI (Quadragesimo anno), Pio XII (Sertum laetitiae), Giovanni XXIII (Mater et Magistra), Paolo VI (Populorum progressio), infatti, legittimano la proprietà privata senza limiti determinati, indicandola come un diritto di natura sancito dalle leggi umane e divine, e offrendo così un valido sostegno allo sviluppo e alla diffusione del capitalismo, anche se ciò è temperato da un generico appello alla solidarietà cristiana e al rispetto della persona.

    Il diritto di proprietà è riconosciuto dalla nostra Costituzione, che, come abbiamo già avuto modo di notare, prevede dei limiti, come l’esproprio per causa di pubblica utilità (art. 42) e la prevalenza dell’utilità sociale (art. 43). Questi limiti sono però scarsamente operativi nella realtà e le leggi dello Stato sembrano orientate più in direzione del privato che del pubblico. Ricordo, ad esempio, che le vigenti disposizioni di legge riconoscono il diritto alla successione ereditaria fino al sesto grado di parentela (art. 572 cod. civ.). Qualcuno potrebbe vedere in ciò la volontà del legislatore di enfatizzare i legami parentali. "In realtà – nota Giovanni Bonilini – è esatto il rilievo, secondo cui queste disposizioni non vanno tanto lette nel senso della valorizzazione di vincoli familiari non prossimi, quanto nel senso di indicazione di criteri di devoluzione ereditaria a favore dei privati, piuttosto che dello Stato, successore d'ultima istanza, nel caso in cui non sia rinvenibile neppure un parente entro il sesto grado (art. 586 cod. civ.)" (2010: 5). È come dire che lo Stato non deve mettere becco nelle proprietà delle famiglie. Ma come si concilia questo indirizzo di legge con il dettato costituzionale degli artt. 42 e 43?
    Il diritto di proprietà è ovviamente riconosciuto, sia pure con sfumature diverse, in tutti i paesi capitalisti, che lo difendono anche con la forza delle armi. Non è per caso, infatti, che questi paesi dispongono di possenti apparati militari. In fondo, anche oggi vale lo stesso principio di forza che ha accompagnato da sempre l’uomo lungo l’intero corso della sua storia. Ancora oggi, cioè, la proprietà si conquista e si difende con la forza, anche se il più delle volte si tratta solo di una forza legata a fattori economici, tecnologici, culturali e giuridici, più che di una forza militare. Oggi, è la legge che stabilisce la trasmissibilità ereditaria di un bene e sanziona il principio secondo cui la proprietà non appartiene solo a colui che l’ha prodotta, ma costituisce il patrimonio di un gruppo (una famiglia, un’associazione, un’azienda o un’istituzione) e, in quanto tale, può essere espansa in modo indefinito.
    In virtù della sua ereditabilità, la proprietà ha finito per diventare “una forma di autorità creata dallo stato” (Lindblom 1979: 28), con conseguenze importanti, che sono davanti ai nostri occhi. Il diritto di proprietà privata patrimoniale fa sì che i cittadini più ricchi possono agevolmente condizionare la politica dei rispettivi paesi, mentre i paesi più ricchi possono dettare la loro legge nel mondo. Si spiega allora perché, a differenza del passato, le grandi famiglie di oggi non puntano più alla conquista della terra per mezzo delle armi e all’asservimento dei vinti, ma alla conquista di nuovi mercati, alla creazione di lobby, trust e imperi economici.
    Che si disponga del potere militare o del potere economico-legislativo, il risultato è lo stesso. In entrambi i casi, infatti, si genera la solita società duale, dove si possono agevolmente distinguere una minoranza di ricchi e privilegiati e una maggioranza di poveri ed emarginati. Questo aspetto rappresenta una costante dall’antichità ad oggi, con la differenza che, mentre in passato si realizzavano regni e imperi duali, oggi si genera un mondo duale, dove pochi gruppi di pochi paesi dispongono della maggior parte delle risorse del pianeta e comandano sul restante genere umano. Insomma, il mondo non è cambiato, perché si regge ancora su rapporti di forza, che sono alla base della diseguale distribuzione dei beni.

    Bibliografia citata
    Barbato M., Thomas Jefferson o della felicità, Sellerio, Palermo 1999.
    Béteille A., La diseguaglianza fra gli uomini, Il Mulino, Bologna 1981 [1977].
    Bonilini G., Manuale di diritto di famiglia, Utet, Torino 2010.
    Bravo G.M., Malandrino C., Profilo di storia del pensiero politico. Da Machiavelli all’Ottocento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994.
    Buonarroti F., Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf, Einaudi, Torino 1971 [1828].
    Del Bò C., Un reddito per tutti, Ibis, Como-Pavia 2004.
    Euchner W., Proprietà. Filosofia e politica, Enc. Scienze Sociali, Enc. Italiana, Roma 1997.
    Facchi A., Breve storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna 2007.
    Hayek F.A., La società libera, Edizioni SEAM, Formello (RM), 1999.
    Hayek F.A., Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994 [1982].
    Kazhdan A.P., Bisanzio e la sua civiltà, Laterza, Roma-Bari 1995 [1968].
    Lindblom C.E., Politica e mercato. I sistemi politico-economici mondiali, Etas Libri, Milano 1979 [1977].
    Locke J., Il Secondo trattato sul governo, BUR, Milano 1998 [1689].
    Mably, Scritti politici, volume secondo, Utet, Torino 1965.
    Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1970 [1953].
    Mises I. von, Socialismo, Rusconi, Milano 1990.
    Morelly, Codice della natura, Einaudi, Torino 1952 [1775].
    Moro T., Utopia, Laterza, Roma-Bari 1981 [1516].
    Rajan R.G., Zingales L., Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino 2004 [2003].
    Rivière C., Introduzione all'antropologia, Mulino, Bologna 1998 [1955].
    Smith A., La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 2006 [1776].
     
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    Un lavoro estremamente interessante, complimenti. Mi sono spesso interrogato sulla legittimità dell'ereditarietà della proprietà privata e tuttora non sono arrivato ad un'idea definitiva, anche se la lettura del presente approfondimento mi ha fatto capire alcune cose.
    Personalmente ho attraversato un periodo giovanile di profonda contrarietà al concetto stesso di proprietà privata, ma con l'età sono arrivato a conclusioni simili a quelle di Hayek, esposte nell'approfondimento da Demodi.
    Resta, come ha dal mio punto di vista molto ben illustrato Demodi, l'innegabile origine violenta della proprietà, che non può non far riflettere chi la considera un diritto naturale.
    Molto interessante anche la conclusione dell'approfondimento, con un'immagine del mondo duale che ricorda i lavori di Immanuel Wallerstein e che appare dal mio punto di vista la più azzeccata per fotografare l'ingiustizia di fondo che regola attualmente le relazioni internazionali.
    In definitiva non v'è dubbio che il tema della proprietà privata è controverso e non liquidabile con una generica condanna di fondo della proprietà stessa, ma è altresì innegabile che occorre riflettere, magari partendo da un'analisi storica come è stato fatto in questa sede, sulla legittimità delle enormi concentrazioni di proprietà e ricchezza nelle mani di pochissimi individui o famiglie.
     
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  9. Demodi
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    CITAZIONE
    Un lavoro estremamente interessante, complimenti.

    Ti ringrazio.
    Vorrei però ricordarti che lo scopo che mi sono prefissato nel momento in cui ho deciso di pubblicare il mio studio in questo Forum è quello di metterlo in discussione, condividerlo, correggerlo, modificarlo, arricchirlo e migliorarlo, facendone un lavoro collettivo e sempre aperto a nuovi contributi. Sono convinto che solo così un lavoro diventa realmente "democratico".

    CITAZIONE
    Mi sono spesso interrogato sulla legittimità dell'ereditarietà della proprietà privata e tuttora non sono arrivato ad un'idea definitiva

    In realtà il mio studio sulla proprietà non si limita alla storia, ma va oltre.
    In estrema sintesi, la mia opinione è la seguente.
    La proprietà può essere intesa come:
    a) strumento per vivere bene
    b) strumento per acquistare potere su altri.
    In democrazia va bene il punto a) e si dovrebbe impedire che accada quanto al punto b).

    CITAZIONE
    non v'è dubbio che il tema della proprietà privata è controverso e non liquidabile con una generica condanna di fondo della proprietà stessa, ma è altresì innegabile che occorre riflettere, magari partendo da un'analisi storica come è stato fatto in questa sede, sulla legittimità delle enormi concentrazioni di proprietà e ricchezza nelle mani di pochissimi individui o famiglie.

    Hai detto bene. Bisognerebbe riflettere sulla proprietà. Ma non per abolirla. Io non penso che il problema sia la proprietà in quanto tale. Io penso che dovremmo riflettere su questo: se le enormi concentrazioni di proprietà siano compatibili con la democrazia.
     
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  10. marxengels
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    Innanzitutto complimenti per il lavoro fatto, avevo bisogno di alcune informazioni ed il tuo lavoro mi è servito molto. E' la prima volta che partecipo ad un forum e pertanto scusatemi per eventuali errori o poca dimestichezza.
    Volevo cogliere il tuo suggerimento per fare alcune riflessioni in merito alla proprietà privata. Ritengo che la proprietà privata sia solo il risultato finale di un qualcosa che ha una radice molto più profonda e materiale. Nel periodo preistorico le forze produttive per potersi sviluppare avevamo bisogno di una sovrastruttura basata sulla proprietà comune, era evidente che nel momento in cui nessuno essere umano riusciva a produrre un surplus produttivo anche per altri non aveva nessun senso parlare di bene privato, in pratica erano le condizioni del lavoro che escludevo la possibilità della proprietà privata. La lenta evoluzione della tecnica, della divisione del lavoro e dello sviluppo demografico ha fatto si che le forze produttive trovassero nella proprietà privata uno stimolo alla crescita ed allo sviluppo. Nel tuo lavoro si vede chiaramente che il concetto di proprietà privata subisce un escalation fino ai giorni nostri.
    A questo punto la mia domanda è: "e se un giorno le forze produttive trovassero nella proprietà privata non un punto di sviluppo ma un vero e proprio limite al loro sviluppo? Saranno proprie queste forze produttive a chidere l'abbattimento di un istituto che sembra oggi quasi dettato da Dio?
     
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  11. Svry
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    [QUOTE=Demodi,25/12/2011, 22:24 ?t=59459050&st=0#entry483840916]
    Introduzione


    <la proprietà privata rappresenta uno dei principali oggetti del mio interesse speculativo, perché sospetto che la sua comprensione sia determinante per comprendere il nostro attuale sistema sociale e politico.

    Ottimo; le mie ricerche, mi han portato sulla stessa questione

    <la mia personale opinione è che non si possa adeguatamente comprendere la proprietà privata se ci si limita ad un approccio esclusivamente di tipo giuridico, perché la proprietà è esistita anche prima che si conoscesse il diritto.

    QUOTO.

    <la comprensione della proprietà non può prescindere dalla conoscenza del suo sviluppo storico, ma non a partire dal diritto romano, come fa ad esempio Wikipedia: bisogna partire dalle società di cacciatori-raccoglitori.

    Aprirei un capitolo a parte, per il monoteismo creato da Abramo (vedi più avanti)

    <il problema è che la letteratura sull'argomento è sorprendentemente povera, almeno questa è stata la mia impressione, e non è facile trovarvi informazioni esaustive.

    Frammentata, incoerente, direi. Hai fatto un' ottimo lavoro; complimenti. E' raro che mi registri ad un sito; ma per te, l ho fatto.

    <anche per questo, lo studio che qui vi presento è una sorta di collage, largamente imperfetto, di notizie che ho raccolto qua e là. Niente di che.
    Da parte mia mi sono sforzato di resistere alla tentazione di legare i vari frammenti di conoscenza, cercando di essere il più possibile obiettivo, ma non so se ci sono riuscito.

    Di sicuro, hai fatto molto rispetto a quanto si trova in giro...
    Attendo un libro che mi smentisca...

    <confido che qualcuno di voi voglia aiutarmi non solo a colmare le mie lacune e a correggere i miei errori, ma anche a trovare buone fonti bibliografiche.

    Buona fortuna !


    <“se rimontiamo fino alle origini delle nazioni, i documenti non attestano forse che in origine esse erano nomadi?” (1965: 228). E se erano nomadi, come potevano essere proprietari di terre o case?

    Ecco; qui, io aprirei una parentesi circa il monoteismo di Abramo. Che, anche se ovviamente vien dopo il neolitico, merita di esser evidenziato. Sia nel caso dei credenti, che nel caso degli ateo-razionalisti, a mio avviso, risulta evidente un primo abbozzo di creazione di proprietà privata. Per gli atei, è indubbio il fatto che Abramo
    crei un primo significativo concetto di proprietà privata. Rompe con la globale mentalità
    pagana, diffusa in tutto il mondo conosciuto di allora, si isola dal resto dell' umanità, crea un dio privato con cui tratta (più o meno).


    <e se erano nomadi, come potevano essere proprietari di terre o case?


    Questo, è il punto su cui volevo arrivare. IL principio da te enunciato e di cui sopra,
    NON è applicabile ad Abramo, il suo dio e la sua tribù. Poiché, pur essendo nomade,
    a mio avviso si deve intendere ogni membro che lo seguì, per via del porre in essere Jahwè, (o eElohim) come SUE PROPRIETA' da un certo punto di vista.
    E, sotto certi aspetti, Abramo stesso come proprietà, del suo dio.
    Ne consegue che tutto il bestiame era proprietà privata ( Abramo come Guida e come eletto e possidente) o il tutto, proprietà privata del dio.
    In sostanza, ne consegue il fatto che si poté esser proprietari e possidenti, pur essendo nomadi e senza fissa dimora (Abramo, comunque, era un nomade che comprò terre).
    IL tuo discorso, fila liscio ma per Abramo prima e gli ebrei dopo, circa la proprietà privata, si dovrebbe aprire un capitolo a parte. Un ' approccio più profondo, direi.
    Anche se non hai trascurato di includer nel tuo lavoro, l' influenza religiosa.

    Spero in una tua risposta. Al momento concludo, segnalando questo interessante libro :

    IL MERCATO DI DIO

    Philippe Simmonot 2010 Fazi Editore
     
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  12. Svry
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    Inoltre, segnalo questo passaggio ...

    (pare ci vogliano almeno 5 messaggi prima di poter postare un URL)

    Comunque é su Antropologia Wikipedia


    ...che può servire per integrare l' argomento:

    Fondazione dell'antropologia: Morgan e Tylor

    Ciò che la storia non aveva saputo fare - portando gli uomini a guardare nel passato per capire la società in cui vivevano - poteva riuscire all'analisi delle strutture sociali dei popoli non ancora civili.

    La nuova scienza antropologica ebbe infatti un inizio promettente con L. H. Morgan (1818-1881) ed E. B. Tylor (1832-1917), i quali, nei loro studi sugli amerindi e su altre popolazioni primitive, rivelarono la comune struttura sociale di tribù di diversi paesi: una struttura caratterizzata da un sistema complesso di rapporti, spesso matrilineari e dalla MANCANZA DI PROPRIETA' PRIVATA e di un apparato repressivo (prigioni, polizia, ecc. L.H. Morgan, Ancient society, Londra, 1877; E.B. Tylor, Anahuac, Londra, 1861).

    Questo fu per loro lo stato primitivo della nostra civiltà, corrispondente all'antica organizzazione sociale della Grecia e di Roma. Ma questa traccia, che minacciava di minare alla sua stessa base la morale, LA PROPRIETA PRIVATA e lo Stato borghesi, era troppo pericolosa per gli antropologi accademici, i missionari, gli esploratori che avevano raccolto le prime informazioni dirette sulle civiltà selvagge. Anche questo compito fu lasciato a Marx e ad Engels.

    Da parte sua, la scienza borghese preferì porsi sul terreno comparativistico di Frazer (1854-1941) e di Westermarck (1862-1939) e limitarsi alla raccolta di oggetti d'arte e folklore, alla ricerca delle origini razziali attraverso la misurazione dei crani. Col miglioramento delle comunicazioni e con l'intensificarsi dello sfruttamento coloniale che caratterizzarono gli ultimi decenni dell'800, i contatti con i popoli primitivi si moltiplicarono. E sebbene nella maggior parte dei casi questi contatti avvenissero unicamente in funzione dello sfruttamento e dello sterminio delle popolazioni indigene, resero anche possibile una maggiore conoscenza dei loro costumi e delle loro credenze. I primi studi antropologici sul posto furono quelli effettuati nel 1871 da Miklukho Maklai (1846-1888) nella Nuova Guinea e da una spedizione zoologica nello stretto di Torres e nella Nuova Guinea (1898-1899). Di questa fecero parte A. C. Haddon (1855-1940) e W. H. R. Rivers (1864-1922). Ma neanche di queste osservazioni dirette, che valsero a confermare lo schema di organizzazione tribale fornito da Morgan e Tylor, si seppe dare altro che un'interpretazione psicologica, mentre gli aspetti economici seguitarono ad essere trascurati.
     
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  13. LunaDP
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    Ho trovato questo lavoro molto interessante, grazie. Nemmeno io ho mai partecipato ad un blog, ma consiglio vivamente la lettura del capitolo del Capitale di Marx sulle recinzioni ed i suoi articoli sulla gazzetta renana (rispetto alla legge sul furto della legna)..argomenti trattati anche nel recente film "Il giovane Karl Marx"
     
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    Topic interessantissimo, lo leggerò con cura.
    Quanto al Capitale lo sto leggendo in questi giorni, diciamo che, per esprimere un concetto non sempre occorrono molte pagine ma, probabilmente per Marx non era così
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    Senza ruffianeria, se tutti i topic di forumfree fossero così, potremmo vivere davvero in un mondo migliore.
     
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14 replies since 25/12/2011, 21:24   22185 views
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