Economia della conoscenza

(perché i laureati non trovano lavoro?)

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  1. Comneno
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    La crisi economica, lo sappiamo, ha colpito prevalentemente i giovani. Molti dibattiti oggi vertono sulla disoccupazione, sul ruolo degli immigrati, sulle scelte formative che i giovani dovrebbero fare. Io con il mio intervento vorrei smentire un luogo comune molto diffuso oggi: che ci siano troppi laureati.
    E' un luogo comune diffuso in quanto le generazioni precedenti, cresciute in una Italia diversa, tendono a osservare la situazione con una certa superficialità: oggi c'è il benessere, e allora ecco che i giovani non vogliono fare lavori umili e vanno tutti all'università per sedersi dietro a una scrivania mentre invece gli immigrati, che vengono dai paesi poveri, sono disposti a fare qualsiasi lavoro.
    Seguendo questo luogo comune, sembra che il consiglio giusto per i giovani sia lasciate perdere l'università, se non siete dei geni assoluti; prediligete una professione di tipo artigianale/artistico che è meglio. Gli stessi media tendono a veicolare questo messaggio, suggerendo ad esempio corsi di cucina.
    Proviamo però ad uscire dalla nostra Italia, e confrontiamoci con il mondo esterno. In quasi tutti i paesi europei il numero dei laureati sulla popolazione è maggiore che in Italia. E in quasi tutti i paesi, salvo quelli disastrati come Grecia e Portogallo, la disoccupazione giovanile è più bassa che in Italia. Ma c'è di più: nei paesi a cui guardiamo di solito come riferimento (Germania, Usa, Giappone...) i laureati pur essendo molti di più, riescono a trovare lavori qualificati e ben pagati. Invece i laureati italiani in media hanno un reddito ed una posizione lavorativa equivalente o addirittura inferiore a chi laureato non è.
    Dando per scontato che ciò dipende dall'oggettivo equilibrio tra domanda ed offerta di lavoro, chiediamoci se il vero problema è che sono troppi i laureati o che è troppo bassa la domanda di lavoratori ad alta qualifica.
    Qui devo tirare fuori l'economista che è in me e parlare di "terziarizzazione dell'economia". Come ben saprete, negli ultimi decenni i paesi sviluppati hanno progressivamente abbandonato l'industria per ragioni svariate: aumento dei costi, normative ambientali più restrittive, nascita di nuovi grandi mercati con notevoli potenzialità di sviluppo. Inoltre, il procedere dello sviluppo tecnologico ha fatto si che il numero degli addetti si riducesse ancora di più per effetto dell'automazione.
    La conseguenza, a livello "sociale" è che "i figli degli operai" difficilmente possono fare tutti il lavoro dei padri. Il lavoro si trova nel settore "terziario" ed è qui il nocciolo della questione, secondo me.
    Il terziario è una categoria enorme, che possiamo scomporre almeno in 3 parti:
    - terziario "burocratico" (servizi pubblici come pubblica amministrazione, scuola, sanità...)
    - terziario "avanzato" (servizi professionali e finanziari, comunicazione, informatica, "industria culturale")
    - terziario "tradizionale" (commercio, trasporti, edilizia, servizi domestici e di manutenzione).
    La differenza tra l'Italia e ad esempio il Giappone o l'Australia, sta proprio nella composizione del terziario: maggiore è la componente "avanzata" e maggiori sono le opportunità per chi ha una qualifica elevata di fare il lavoro "giusto" con un reddito soddisfacente e con una creazione di know how a beneficio del paese. Da noi invece questi settori sono poco sviluppati quando non bloccati da corporazioni (gli ordini professionali, sui quali ovviamente non è giusto generalizzare: ce ne sono alcuni più aperti altri realmente "dinastici"). Lo si può vedere, come prova indiretta, dall'enorme partecipazione ai concorsi pubblici. Per alcuni tipi di studio, vincere un concorso pubblico è l'unica speranza, perché nel settore privato non c'è nulla.
    Sfortunatamente, il sistema economico italiano si sta orientando verso il terziario a bassa qualifica: centri commerciali, imprese di pulizie, edilizia. Ciò crea il paradosso che uno venuto da un'altro continente trovi lavoro quasi subito (come schiavo, ma come ho già scritto in altre occasioni agli italiani fa comodo pensare di essere dei benefattori) mentre invece il figlio di un operaio che ha investito tempo e denaro per una laurea si trova senza lavoro.
    Quello che ritengo dunque prioritario, in una ottica di governo, è trovare strumenti e soluzioni per invertire questa tendenza: altrimenti l'Italia smetterà di essere un paese sviluppato, si ridurrà ad essere per l'Europa ciò che è Cuba o Puerto Rico per gli Stati Uniti.
     
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    Grande analisi Comneno, giù il cappello. Manca solo un passaggio: sono d'accordo sul fatto che in Italia non abbiamo troppi laureati come numero assoluto, ma ti chiedo: siamo sicuri di non avere troppe persone con diplomi di laurea in materie umanistiche e troppo poche con lauree scientifiche, indispensabili per investire nel terziario avanzato, nell'innovazione e nelle produzioni ad alto contenuto di conoscenza?
     
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  3. Mr James
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    Assolutamente d'accordo, Comneno. Il tuo discorso, a parer mio, potrebbe addirittura essere esteso a livello globale. Abbiamo assistito negli ultimi decenni alla spaventosa crescita dei Paesi del Terzo Mondo (Cina e India in primis, ma anche molti altri), perchè questi, grazie alla globalizzazione e alla delocalizzazione, si sono sostituiti all'Occidente come "fabbrica del mondo", sfruttando i più bassi costi di produzione. I Paesi occidentali che sono riusciti a "salvarsi" dall'emorragia di imprese di produzione che fuggiva verso oriente sono proprio quelli che maggiormente hanno puntato sull'innovazione, non solo terziaria: la Germania ha sempre avuto un'industria tradizionale all'avanguardia, e ora sfrutta anche le nuove tecnologie (basti pensare che sono tra i maggiori produttori di pannelli fotovoltaici, nonostante siano in una posizione geografica non favorevole alla cosa); gli USA sono leader nel settore informatico e nelle nuove tecniche di estrazione petrolifera (che tra l'altro sono i due settori che negli ultimi anni hanno permesso all'economia americana la ripresa); la Gran Bretagna è da sempre un modello per le economie terziarie, e un centro finanziario d'eccellenza ; il Giappone, lo sappiamo, sfida il gigante americano sull'informatica.

    E' evidente quindi che la conclusione cui sei arrivato tu è più che mai azzeccata: per ridare al mercato del lavoro italiano speranza, bisogna puntare sui settori ad elevatissimo valore aggiunto, perchè sugli altri fronti abbiamo già perso, vuoi per l'immigrazione, vuoi per la globalizzazione. Eed è per questo che spesso mi viene da ridere quando, nei discorsi sulla crisi economica, si tiri sempre in ballo il fatto che la colpa è dell'austerity, della mancata sovranità monetaria, o della crisi di domanda.
     
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  4. Comneno
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    CITAZIONE (Oskar @ 12/3/2015, 11:39) 
    Grande analisi Comneno, giù il cappello. Manca solo un passaggio: sono d'accordo sul fatto che in Italia non abbiamo troppi laureati come numero assoluto, ma ti chiedo: siamo sicuri di non avere troppe persone con diplomi di laurea in materie umanistiche e troppo poche con lauree scientifiche, indispensabili per investire nel terziario avanzato, nell'innovazione e nelle produzioni ad alto contenuto di conoscenza?

    Ci vorrebbe un'analisi più profonda per accertare questo, anche se la sensazione che un po' tutti abbiamo è proprio che si, ci siano molti laureati in discipline umanistiche e pochi in discipline scientifiche.
    Questo a mio parere dipende da precise tare del sistema educativo. Perché i giovani non sono stupidi, lo sanno che l'informatica, la meccatronica, le biotecnologie sono cose vincenti... ma se non insegni loro la matematica "come si deve" li costringi poi a girare alla larga da qualsiasi corso che preveda esami di matematica e di statistica.
    Al di là di questo, quando parlo di economia della conoscenza non intendo solo ricerca scientifica/tecnologia d'avanguardia (che giustamente dovrebbe essere l'asse portante dello sviluppo) ma anche quella che ho definito "industria culturale". Quante persone impiega "Hollywood"? Quante persone impiega il sistema editoriale britannico, tra "grandi giornali internazionali", musica, documentari della BBC? E quanti, in Giappone, lavorano nel mondo del fumetto e dell'animazione?
    L'industria culturale italiana è tutt'altro che inesistente, ma siamo lontani dall'usare in pieno le nostre potenzialità, soprattutto perché molti dei "prodotti" del nostro sistema informazione/comunicazione/cultura sono rivolti al solo mercato nazionale e non all'estero. Salvo rari casi, i nostri film, la nostra musica, in nostri giornali sono sconosciuti all'estero. Non esiste neppure, malgrado una TV pubblica con 14(!) canali uno che faccia "all news" in inglese e le trasmetta in tutto il mondo. Tanto per dire "ecco, questa è la finestra sul mondo dell'Italia". Le TV di altri paesi di canali del genere ne hanno svariati, trasmettono in varie lingue.
    La nostra proiezione culturale nel mondo è limitata a due ambiti:
    - prodotti "stile vintage" per gli emigrati, che avallano la percezione di una Italia che non esiste più;
    - prodotti "ideologici" che devono comunicare al mondo qualcosa per provocare reazioni che poi debbono rimbalzare in Italia per essere strumentalizzate.
    In generale, in questo genere di attività, che possono essere un ottimo moltiplicatore (perché oltre a fare di per sé profitti, sono un veicolo di marketing per il paese) noi non siamo aperti al mondo, siamo autoreferenziali. Ed i "leader" in questi settori (USA, UK, Giappone, Francia...), invece di sfidarli ce li teniamo come "fornitori".

    PS. Anche se il mio discorso è rivolto principalmente al settore privato, anche il pubblico potrebbe fare una sua parte. Se volessimo tirare fuori dagli scantinati dei musei tutte le opere che, (per mancanza di spazio o perché necessitano di un restauro che non si vuole intraprendere) restano "in soffitta"...
    Se volessimo digitalizzare e mettere on-line l'immenso patrimonio archivistico e librario italiano... altro che "google books"... altro che "wikipedia"...
     
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  5. Comneno
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    A proposito di questo argomento, un interessante articolo di Limes, la nota rivista di geopolitica che "si scomoda" a parlare di "manga" http://limes.espresso.repubblica.it/2007/1...el-mondo/?p=313
     
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    CITAZIONE (Comneno @ 12/3/2015, 20:03) 
    A proposito di questo argomento, un interessante articolo di Limes, la nota rivista di geopolitica che "si scomoda" a parlare di "manga" http://limes.espresso.repubblica.it/2007/1...el-mondo/?p=313

    Interessante: come valorizzare anche economicamente forme di cultura apparentemente di nicchia ma in realtà di enorme diffusione. Ricordo quando nel 2013 mi sono imbattuto nella fiera del manga a Barcellona: un afflusso di persone davvero impressionante.
     
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5 replies since 12/3/2015, 11:08   81 views
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