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Vorrei consigliarvi, a proposito di guerra in Ucraina, il reportage di Paolo Rumiz, edito da Feltrinelli nel 2011, sulla guerra in Jugoslavia, che, per molti versi, anticipa nei modi e nelle motivazioni, l’attuale crisi ucraina. “Maschere per un massacro” è il titolo e ricostruisce la genesi e la gestione di una guerra che volle camuffarsi come guerra per la pulizia etnica e che invece nasce verosimilmente come il tentativo riuscito delle nomenklature delle varie repubbliche jugoslave, dopo la fine del titoismo, di riciclarsi e mantenere il potere attraverso l’emergenza di una guerra indotta con anni di propaganda preparatoria allo scontro, provocazioni e campagne di stampa , tale da preparare le popolazioni alla guerra. Perché solo una economia di guerra poteva salvare quelle società dallo sfascio dei debiti, della corruzione e delle commistioni criminali. Occorreva solo soffiare sul fuoco delle differenze etniche e cercare un innesco per provocare l’emergenza bellica ed umanitaria, che avrebbe salvato e consolidato le loro leaderships. Una parte persino comica è quella che riguarda le complicità di fatto col nemico, quando l’uno aspetta la mossa dell’altro per gridare ad una aggressione che stenta ad arrivare ed occorre incoraggiare con la notizia di falsi eccidi, oppure non si reagisce per convenienza spartitoria a difendere le proprie minoranze, proprio perché si vogliono ripulire i territori dalle popolazioni, inseguendo lo sradicamento come arma politica e il deserto umano per poter razziare indisturbati nelle cittadine occupate. Sembra l’ anteprima di quello che sta succedendo in Ucraina, con l’organizzazione di mercatini e circuiti organizzati per la vendita dei beni razziati. Un’altra analogia è la qualità umana dei combattenti e delle milizie paramilitari, composte allora da popoli montanari e di campagna, pronti a trasformarsi in feroci guerrieri, che si contrapponevano alla borghesia urbana, colta ed inclusiva. Anche oggi, la Federazione russa ricorre a ceceni ed altre etnie siberiane e asiatiche per lanciarli contro i centri urbani ucraini. In Jugoslavia, i bombardamenti più feroci riguardavano i vecchi centri cittadini, i teatri, i musei, le biblioteche, i simboli della cultura civica, odiata dai serbi contadini e montanari. Anche in Ucraina, si bombarda la civiltà autoctona e si spostano popolazioni, per ottenere lo sradicamento ed ottenere il consenso del bisogno. Anche la guerra di Putin viene da lontano, dalla economia drogata e corrotta di un paese retto dalla stessa classe dirigente del dopo-muro, che ha bisogno di un consenso primitivo, legato al patriottismo e alle presunte minacce esterne, che scatena guerre per non dover mai rendere conto del proprio operato. In tutto questo, la NATO e l’intero occidente non ci aveva capito niente e liquidò la faccenda come il frutto dell’odio etnico, e quando fu tirata dentro a bombardare i serbo-bosniaci, questi furono ben lieti di ritirarsi di fronte alla Nato, un nemico superiore, che giustificava la resa e che sarebbe stato poi l’oggetto delle future fantasiose polemiche sugli inesistenti interessi europei e americani nei Balcani. Non si passano anni a foraggiare la disinformacija se, al momento opportuno, non scatta l’accusa contro la Nato, gli USA e l’Occidente, e i loro complotti. Come da copione. Bisognerebbe saper ammettere che queste guerre sono un fenomeno del tutto autoctono, legato alla difesa strenua di quel tipo di società e di quel tipo di consenso, che arriva allo scontro bellico pur di mantenere il controllo di una opinione pubblica chiamata sempre alla difesa della propria identità di campione del panslavismo ortodosso, e che il resto del mondo è sempre abbastanza estraneo e sconcertato di fronte a queste tecniche antichissime di manipolazione politica interna ed esterna. C’è una cosa che ho sempre ammirato degli slavi e sono le loro capacità camaleontiche, con le quali riescono a sembrare perfettamente europei, e lo sono, e a rimanere perfettamente bizantini, pietrificati nella mistica delle origini, costretti a ripetersi come popolo sacrificato al destino superiore della Nazione. Questa contrapposizione campagna-città è la stessa che alimenta il primitivismo dell’America profonda, l’eterno far-west e l’eterno puritanesimo delle origini. A tempo debito, c’è chi sa strumentalizzarne le potenzialità eversive, dal maccartismo al trumpismo. E il gioco degli specchi continua.
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