Resistenza e Liberazione

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    Vorrei fare una riflessione storica sulla Liberazione di cui domani si celebra la ricorrenza.
    In particolare, vorrei fare un parallelismo tra Germania e Italia, su come entrambe hanno vissuto la fine della II Guerra Mondiale.
    Fino al 1939, i due Paesi hanno avuto un percorso sostanzialmente equiparabile: entrambe guidate da una ditttura, entrambe caratterizzate da un consenso popolare PLEBISCITARIO, con solo sparute sacche di dissenso interno, entrambe già colpevoli di guerre di aggressione accolte trionfalmente in Patria.
    Anche nei primi anni della Guerra, entrambi i Paesi hanno potuto contare su un forte consenso interno.
    Le cose sono cambiate quando i primi pesanti rovesci militari, hanno fatto scattare in noi l'atavico istinto, come diceva Flaiano, di correre in soccorso del vincitore: con una disinvoltura che ci è costata irrisione, disistima e strutturale diffidenza in alleati e avversari, abbiamo, dall'oggi al domani, cambiato schieramento, diventando alleati di chi fino al giorno prima era un nemico, e nemici di chi il giorno prima era alleato. Memorabile lo spaesamento dimostrato dalla frase di Alberto Sordi in "Tutti a casa" ("Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!" )
    In questo modo, abbiamo tentato, come Paese, di "lavarci la coscienza", scrollarci da dosso il peso di una epocale sconfitta ed illuderci di essere, invece, tra i vincitori.
    Il proseguo della Guerra é noto: la Germania ha combattuto fino alla fine, ha avuto tutte le sue principali città distrutte ( in molte di loro non erano letteralmente rimasti quattro mura in piedi). Dopo che il principale responsabile del disastro si era sparato un colpo in testa, la Germania ha chinato il capo subendo ogni umiliazione possibile: la mutilazione di buona parte del suo territorio, la perdita di città fondamentali per la sua storia (Stettino, Danzica, Koenigsberg, la città natale di Kant: come se a noi venissero tolte Firenze, Milano e Venezia), ha subito per decenni la oscena divisione in due della sua capitale, separata da un muro eretto per impedire ai tedeschi "imprigionati" nella parte orientale della città, di scappare rincorrendo la libertà.
    La Germania ha accettato virilmente di cadere nella polvere, e fare i conti con la sua storia: ha fatto piazza pulita del suo passato, per anni i figli hanno rimproverato i padri per non aver fatto nulla per impedire i crimini nazisti, non accettando i loro balbettanti "non sapevo", "non potevo immaginare". Ha subito il processo di Norimberga e subito dopo ha fatto piazza pulita della nomenclatura nazista. La Germania si è riscattata, si è rialzata dalla polvere ed è diventata il grande Paese che sappiamo.
    In Italia, invece, il maggior responsabile del disastro ha tentato vigliaccamente di scappare in Svizzera sotto mentite spoglie, abbandonando i suoi camerati che ancora pochi giorni prima aveva concionato invitandoli a resistere e ad avere incrollabile fiducia nella immancabile vittoria.
    La memoria collettiva ha cancellato le responsabilità del nostro Paese, rimuovendo i crimini di cui ci eravamo macchiati: Brandt è andato ad inginocchiarsi ad Auschwitz, in Etiopia stanno ancora aspettando che qualche nostro Primo Ministro vada ad inginocchiarsi ad Addis Abeba per chiedere scusa per le centinaia di migliaia di innocenti loro cittadini sterminati col gas dal Maresciallo Graziani.
    Soprattutto, perdonatemi se lo dico ma cercate di capire il senso e il motivo per cui mi esprimo così, si è esaltata oltre misura il ruolo della Resistenza partigiana, come se fosse stato TUTTO il popolo italiano a insorgere in armi e liberare il nostro Paese dai nazisti. L'indubbio ed indiscutibile valore etico e morale di quei nostri concittadini, non può nascondere il fatto che solo l'intervento militare degli anglo-americani (che in Italia hanno lasciato, lo ricordavo ieri, 90.000 ragazzi sepolti in 45 cimiteri lungo tutta la penisola, a fronte di 6800, valorosissimi per carità, partigiani morti in azione).
    La Resistenza è stata usata come alibi per permettere all'Italia di non fare i conti col suo passato: ci si mise poi lo stesso Togliatti, con la sua amnistia, a solleticare l'altra, eterna, propensione italiana: "chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scurdammoce 'o passato".
    Risultato: la "nuova" Italia ha ereditato integralmente la struttura burocratica, politica, militare, sociale e valoriale del passato fascista.
    Perfidamente faceva notare Churchill: «Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…»
     
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    Anche in Germania, quella federale, in realtà, le cose andarono avanti con un bel po' di compromessi: ci furono sì i processi di Norimberga, ma molti funzionari statali ed anche esponenti politici, decisamente compromessi con il nazismo mantennero le loro posizioni o ne assunsero di nuove. Nella DDR le strutture di uno stato totalitario, mutatis mutandis, o meglio le bandiere, e del partito unico (con pro forma qualche partitucolo alleato), nonché dell'apparato poliziesco e repressivo, rimasero in piedi sino al 1989.
     
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    Fino ad una ventina d'anni fa avrei sostanzialmente concordato con la rappresentazione proposta.

    Mi ha sempre colpito la continuità giuridica di una quantità di norme e di svariati interi Codici (non affatto solo quello penale, come è stato osservato sui giornali di questi giorni, anzi quello penale forse persino meno di altri, per non parlare del corpo delle norme sui Beni Culturali ed Ambientali, fino alla istituzione di aspetti assai strategici del nostro sistema previdenziale) che anche quando non ideologicamente fascisti erano però indubbiamente stati emanati da istituzioni di nome e di fatto pienamente fasciste (si pensi in particolare al ruolo della Camera dei fasci e delle corporazioni nella stesura del vigente Codice Cvile).

    Però da quando ho completo accesso all'archivio di famiglia (con importanti documenti riguardanti la "vita vissuta" del riordino del Ministero dell'Interno, epurazioni etc. già in epoca di progressivo avanzamento del fronte e in quella di ripristino degli uffici dopo l'uscita di scena dei Cobelligeranti) mi sto facendo una idea diversa.

    In fondo se fra 1943 e 1948 rimangono svariate "macchie" di fascismo nelle nostre istituzioni è perché in Italia la partita grossa, quella veramente importante e decisiva, non fu tanto la sconfitta meticolosa di ogni traccia del deposto regime quanto l'estromissione totale della monarchia.

    Il bagno di repubblicanesimo che lavò le nostre istituzioni in quegli anni fu così notevole e prioritario (anche in alcuni settori delle Forze Armate, tanto per fare un altro esempio) da tollerare talora continuità di procedure o di personalità minori originariamente fasciste, anche considerato che nell'ultima propria fase il fascismo fu ideologicamente antimonarchico.

    Due battaglie che probabilmente non potevano essere combattute fino in fondo contemporaneamente dalla giovane democrazia e che ad ogni modo senz'altro non lo furono.

    Del resto è cosa evidente che al Referendum del Due Giugno l'esito non sarebbe potuto essere quello che è stato se -soprattutto al Nord- gli ex fascisti non avessero votato compattamente contro i Savoia.

    In qualche caso le magagne riemersero poi negli anni Settanta -ad un passaggio generazionale più o meno coevo con quello di altri Paesi d'Europa- con l'apertura degli Anni di Piombo.
     
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    Meno male che qualche paletto all'agiografia (I tedeschi sì che hanno fatto i conti con il nazismo! ) è stato già posto.
    Ho viaggiato un po' in Germania pre e post muro e mi sono trattenuta più spesso nel periodo '93 - '97. Per quel che ho colto e letto, fino alla riunificazione è prevalso o quasi il silenzio sul nazismo. E nel periodo successivo si è passati, direi, all'eccesso opposto, almeno quanto a visibilità "monumentale", specie a Berlino. Lo scopo penso sia stato quello, comprensibile, di "varare" una coscienza collettiva comune.
    Uguale funzione si è proposta di svolgere la "mitologia" post resistenziale condannata da Atlantista. Malgrado le ipocrisie e contraddizioni ritengo fosse necessaria e, nella giusta rivisitazione storiografica, da mantenere: un primum fondativo non è mai scevro da pecche, ma ogni paese ne ha bisogno per sentirsi tale, e l'Italia aveva perso quello risorgimentale strumentalizzato dal fascismo. Demolirlo è un errore.
    Così intendo il 25 aprile.
     
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    Per provare a capire fuori dagli stereotipi cosa c'è che non va nella narrazione scolastica del 25 aprile, mi piacerebbe un giorno o l'altro (ma se qualcuno volesse farlo per me citando qualche fonte gliene sarei più che grato) approfondire su quali tematiche e su quali esigenze pratiche si ruppe sin dal I Congresso Nazionale ANPI del '47 l'unità delle organizzazioni ex combattentistiche partigiane con l'uscita (a quanto narratomi sbattendo metaforicamente la porta) da parte di quella storicamente e militarmente forse più importante, costituita dalle emanazioni del Partito d'Azione (al netto delle formazioni antifasciste di stretta osservanza PRI che ad ANPI, in quanto esito del CLN, mi risulta non avessero aderito, sulla base della propria pregiudiziale antimonarchica).

    Questo per dire che la perdita di un credibile filo di continuità nella narrazione e nella percezione identitaria resistenziale è in realtà precocissima. Avvenuta prima ancora che fosse stata inventata (o re-inventata) per il largo pubblico la canzonetta "Bella Ciao".
     
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    Il 25 Aprile è la ricorrenza della Liberazione dal fascismo. Il nostro attuale assetto costituzionale, cioè fondativo, è una repubblica democratica ed antifascista. E' quindi un paradosso storico-politico ed istituzionale che al vertice del governo vi sia un partito (e la sua leader) che non soltanto non è antifascista, ma che reca nel suo simbolo la fiamma che rievoca la tomba del duce Benito Mussolini ed il M.S.I., notoriamente partito neo-fascista, fondato dal fascista Pino Rauti. Nessuna sorpresa se l'autoritarismo illiberale di quel regime si sta (ancora timidamente) riproponendo sotto forma di censura, anche violenta, delle idee e manifestazioni 'sgradite' all'attuale regime. Una svolta in senso autoritario neo-fascista si avrebbe se passasse il c.d. premierato, che non a caso la 'condottiera' del governo proclama come la "madre" di tutte le riforme (madre perché genererebbe, a cascata, altre riforme della stessa specie, autoritaria, illiberale, fascista).
     
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    virelle Io vivo in Germania dal 1980 e posso confermare che, certo con qualche eccezione, la "denazificazione" è alquanto recente, mentre prima era il silenzio a prevalere. Il nazismo è stato il grande tabù, al di là della celebrazione di alcune, poche figure divenute emblematiche, cone i fratelli Scholl o Dietrich Bonhöffer. Certo il cambio generazionale ha avuto il suo peso. Penso anche che sinché la DDR esisteva si preferisse evitare un argomento che avrebbe rischiato di divenire comune e si è preferito il silenzio. Si è anche cercato - almeno io la vedo così - di costruire un mito antinazista (diverso da quello comunista della DDR) esaltando le figure degli alti ufficiali che presero parte alla congiura contro Hitler che sfociò nell'attentato del 20 luglio 1944. Si trattava però non di una ribellione a Hitler per la sua politica disumana, ma piuttosto perché aveva condotto l'esercito al disastro, ed erano consapevoli che la guerra era perduta. Non si trattava, nel caso degli ufficiali tanto di instaurare una democrazia, quanto di salvare il salvabile. Ci sono studi recenti - che però non ho letto, non è un argomento di cui io mi sia interessato particolarmente - che ricostruiscono l'operato dei movimenti antinazisti, non solo la congiura di cui ho accennato, ma in forma più ampia.

    Non ricordo di aver mai discusso l'argomento nazismo con conoscenti tedeschi (il che naturalmente poco indicativo, in quanto i miei contatti sociali sono sempre stati ridotti a pochissime persone).

    Preoccupante è attualmente qui il rigurgito dell'estrema destra che ha spesso chiari elementi nazisti. Proprio in questi giorni sono stati pubblicati i risultati di un'inchiesta condotta tra i giovani (14 - 29 anni, se ben ricordo), da cui risulta che il partito preferito sarebbe l'AfD.
     
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    il 25 aprilè non è una festa .... ma è una data importante il giorno della liberazione dal nazifascismo
     
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    CITAZIONE (virelle @ 24/4/2024, 15:46) 
    . Lo scopo penso sia stato quello, comprensibile, di "varare" una coscienza collettiva comune.
    Uguale funzione si è proposta di svolgere la "mitologia" post resistenziale condannata da Atlantista. Malgrado le ipocrisie e contraddizioni ritengo fosse necessaria e, nella giusta rivisitazione storiografica, da mantenere: un primum fondativo non è mai scevro da pecche, ma ogni paese ne ha bisogno per sentirsi tale, e l'Italia aveva perso quello risorgimentale strumentalizzato dal fascismo. Demolirlo è un errore.
    Così intendo il 25 aprile.

    Se lo scopo era quello di "creare un primum fondativo comune", mi spiace dirlo, ma è miseramente fallito.
    Perché il 25 aprile non è mai stata "solo" la data che segna la fine della guerra e la liberazione dall'occupazione tedesca (cosa che, vissuta in quel senso, avrebbe potuto essere effettivamente un momento unitario fondativo della "nuova" Italia), ma anche la fine della guerra civile che ha imperversato tra il 1943 ed il 1945: una guerra che, come tutte le guerre, ha avuto un vincitore ed uno sconfitto: come si può pretendere che gli sconfitti (che non erano 4 gatti come si vuol far credere) festeggino quella data?
    In più, con la sostanziale appropriazione di quella ricorrenza da parte di un solo schieramento politico, quello di sinistra (anzi quello comunista tout court), il 25 aprile ha definitivamente perso ogni connotazione unitaria, diventando, al contrario, una festa "di parte", per di più di una "parte" politica strutturalmente minoritaria in Italia.
    Conseguenza: per reazione, un'ampia fetta di Italiani ha finito per non riconoscersi più nella etichetta di "antifascista". Un recente sondaggio sostiene che solo il 72% accetta quella definizione (e quindi il 28% rifiuta di definirsi "antifascista"), ma sospetto che la realtà sia, e pure di gran lunga, più drastica (gli Italiani mentono spesso e volentieri nei sondaggi, soprattutto quando sono chiamati a dare di sé un giudizio "morale").
    Del resto, non é un caso che al governo ci sia un partito (ed una maggioranza parlamentare, a sua volta espressione di una maggioranza di elettori) che non si sono mai definiti "antifascisti".
    Altro che "primum fondativo": il 25 aprile è diventato un simbolo di divisione, uno strumento di lotta politica. A questo punto, se non è (non é più) una "festa" unitaria, ma di parte, non ha più senso che sia ancora una "festa nazionale": continui ad essere celebrata solo da chi si riconosce nei movimenti politici che se ne sono appropriati, sarebbe più onesto,
     
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    I Partigiani sono i veri eroi del 25 aprile.
    Grazie partigiani.
     
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    CITAZIONE (Acqua blu @ 25/4/2024, 11:05) 
    I Partigiani sono i veri eroi del 25 aprile.
    Grazie partigiani.

    Condivido. Purtroppo bisogna tornare ad essere partigiani, perché quel tempo, seppure in forme meno cruente, si sta riproponendo.
     
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    Il 'decalogo' di Umberto Eco sul "fascismo eterno" (www.ibs.it/fascismo-eterno-libro-umberto-eco/e/9788893442411

    1. La prima caratteristica è il culto per la tradizione. Il richiamo a vere o presunte radici è usato per creare fossati tra etnie “elette”, tendenzialmente quelle del Paese in cui il fascismo eterno mette radici, e il resto dell’umanità.

    2. Il fascismo eterno predilige pilotare gli istinti del cosiddetto “popolo” e detesta i principi del pensiero critico. L’età della Ragione – cioè l’Illuminismo – viene vista come l’inizio della depravazione moderna.

    3. La cultura è contro il popolo. Il sospetto verso “chi ha studiato” è ancora oggi un sintomo dell’eterno fascismo: dalla dichiarazione attribuita al ministro nazista della Propaganda Paul Joseph Goebbels (“Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola”) all’uso frequente di espressioni brandite ancora oggi come insulti: “intellettuali di sinistra”, “radical chic”, “comunisti” e via elencando.

    4. Non essere d’accordo con il messaggio propinato dal capo è un tradimento, meritevole di ulteriori insulti (nella migliore delle ipotesi).

    5. Il razzismo è una chiave di volta per ogni sistema fascista o parafascista, che insegue il consenso esasperando la naturale paura nei confronti della differenza. Il primo appello di un movimento simil-fascista è contro gli intrusi, prima di tutto gli stranieri o coloro che sono percepiti come estranei (rom, ebrei, omosessuali, dissidenti, ecc.).

    6. La frustrazione sociale e individuale è usata come lievito dall’autoritarismo. Infatti una caratteristica comune anche a tutti i “vecchi” fascismi è stato l’appello a classi sociali in difficoltà per qualche vera o presunta crisi economica o umiliazione politica.

    7. Il nazionalismo diventa il collante per coloro che si sentono privi di un’identità sociale. Il fascismo eterno cerca di convincerli del fatto che la loro qualità fondamentale è quella di appartenere a un “popolo” che ha radici in un unico Paese. Quindi, per consolidare questa “identità”, occorre avere sempre nemici: minoranze, stranieri, presunte caste e ipotetici complotti sovranazionali. Gli adepti devono sentirsi circondati e, ovviamente, la xenofobia è il mezzo più semplice per garantire questa sensazione.

    8. Il pacifismo è collusione col nemico ed è cattivo perché la vita è un conflitto permanente per difendere Nazione, identità e tradizione.

    9. Ogni cittadino della Nazione appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. E il leader è il Numero Uno tra i migliori.

    10. Il cosiddetto popolo è concepito come un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”. Dal momento che nessuna grande quantità di esseri umani può esprimere all’unisono una volontà comune, il leader è il loro interprete. Oggi non servono più le vecchie adunate oceaniche; c’è la grande piazza del web in cui la risposta emotiva di alcuni può essere presentata come la “voce del popolo”.
     
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    Salvo49 Per favore contrassegna chiaramente la citazione.
     
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    Atlantista Il 72% di antifascisti dichiarati non mi sembra tanto poco, specie se messo in relazione con l'astensionismo ("gli antifascisti convinti sono solo il 36% dei “non votanti”). Conforta che...
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    Al contrario delle attese... la cultura antifascista è più diffusa tra i giovani e tende a diminuire andando avanti con l’età. Tra i giovani si tocca quota 73%, tra gli over 54 si scende fino al 57%. Non è quindi tanto un tema di memoria e distanza temporale, ma soprattutto di attenzione e fiducia nei confronti del concetto di democrazia.https://www.quotidiano.net/politica/italiani-antifascisti-sondaggio-25-aprile-b052c579

    Quanto all'appartenenza politica...
    CITAZIONE
    I diversi elettorati mostrano atteggiamenti differenti. Gli elettori del M5S e ancor di più quelli del PD esprimono una condanna netta del Ventennio, mentre nell’ambito del centrodestra c’è una maggiore tendenza a ritenere inutile a parlarne e comunque a non liquidarlo come il male assoluto. Tuttavia nel centrodestra c’è una realtà articolata, dove comunque poco meno della metà condanna il fascismo senza se e senza ma. Da notare anche che il 55% degli elettori di fdI si ritiene antifascista.(sondaggio Swg)
     
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    Molto forte e (inusualmente) duro il discorso del presidente Mattarella a Civitella Valdichiana, che probabilmente ha ritenuto non più rinviabile l'erezione di un doveroso muro istituzionale al governo della Meloni, che continua a manifestare, in un modo o nell'altro, la sua congenita estraneità alla cultura democratica ed antifascista così come fissata dalla Carta costituzionale.
     
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