Storia e Politica

Votes taken by Oskar

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    Dopo la lezione sulla "Gestione del panico" affidata a Schettino, l'Università La Sapienza ha indetto dei nuovi corsi di laurea. Eccoli in anteprima:

    - Cesare Prandelli: "Strategie vincenti"
    - Giuliano Ferrara: "Educazione alimentare"
    - Benjamin Netanyahu. "Percorsi di pace"
    - Anna Maria Franzoni: "Il rapporto con i figli"
    - Genny 'a Carogna: "Gestione degli eventi sportivi"

    Preso dalla pagina facebook Labbufala
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    Più mi documento (anche se rimango ben poco esperto in materia), più mi convinco che il più grande imperatore della storia di Roma, nonché mia personale fonte di ispirazione per molte cose, sia stato Aureliano, l'imperatore che pose un freno alla crisi del III secolo d.C., fermò la svalutazione monetaria, costruì nuove mura per Roma e sconfisse gli imperatori impostori che avevano sottratto all'Impero province fondamentali.
    Al grande Aureliano, che seppe imparare dalle sue prime sconfitte coi barbari, che usò tra i primi in battaglia la tattica della finta ritirata che riuscì ad affrontare e risolvere un problema alla volta nei suoi pochi anni di regno prima di essere assassinato da una vile congiura, si deve forse anche il fatto che il Natale sia il 25 dicembre: aveva fatto di quella data il giorno della nascita del dio ch'egli adorava: il Sol invictus, dio dei soldati.
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    Entrambe le novità sono state attivate, al fine di stimolare le discussioni. Vanno ritenute in prova per i prossimi 30 giorni (almeno), quindi se qualcuno avesse delle rimostranze non ha che da dirlo :).

    Per chi avesse dubbi su punteggio e reputazione rimando alle rispettive pagine di spiegazione del Wiki di forumfree: punteggi per i messaggi / reputazione.

    Per il tag invece la pagina di riferimento per ogni dubbio è questa.
    Nota bene: il registro delle persone citabili col tasto "Tag", che avete sia nella risposta rapida che in quella normale, si aggiorna automaticamente mano a mano che leggete almeno un intervento di quella persona. Ad esempio, se voglio taggare Romeo devo leggere almeno una discussione in cui sia intervenuto.
    Sopra le discussioni troverete il nuovo menù "Notifiche" in cui vedrete i tag al vostro nick da parte degli altri utenti (o di voi stessi :D ).
    Prova: Oskar frapalin manfred.r Eddie1988
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    Gang bang (titolo originale Snuff) è il nono romanzo dello scrittore statunitense Chuck Palahniuk. Uscito nel 2008, è assolutamente sconsigliato ai lettori non maggiorenni. Questa raccomandazione, valida per tutte le opere di Palahniuk, è ancor più da sottolineare in riferimento a Gang bang, in considerazione della natura esplicita dei temi affrontati dal libro.

    Il romanzo si svolge pressoché interamente all'interno di una stanza sudicia e orrendamente affollata, piena di schermi che trasmettono film pornografici, nella quale una fauna variopinta di individui di ogni età, razza e estrazione sociale aspetta il proprio momento. La leggendaria pornostar Cassie Wright ha scelto di terminare la propria carriera a luci rosse tentando di battere il record mondiale di partecipanti a una gang bang; a tal fine ha deciso di avere rapporti sessuali con seicento uomini. Il film che ne uscirà diverrà, nei suoi propositi, un must per gli amanti del genere, anche perché Cassie ha intenzione di morire sul set, trasformando la pellicola in uno snuff movie che renderà ricco il figlio che ha abbandonato, neonato, diversi anni prima. Per molti l'attesa di consumare il rapporto con la regina del porno, visto il colossale numero di partecipanti, si protrae per svariate ore.
    Il libro è scritto in prima persona, ma le voci narranti sono quattro e si alternano a ogni capitolo. Una è di una giovane disgustata dagli uomini, Sheila, collaboratrice di Cassie Wright e organizzatrice della sua monumentale impresa; le altre tre sono di altrettanti individui che hanno risposto all'annuncio di ricerca di uomini della pornodiva e che aspettano che il loro numero venga estratto per entrare nella sua stanza. Il primo, numero 600, è il vecchio e logoro pornoattore Brench Bacardi, che ha già lavorato con Cassie Wright e che inganna il tempo depilandosi e guardando se stesso nei film hard che girano incessantemente sugli schermi. Il secondo, numero 72, è un ragazzo che ha alle spalle una tormentata storia familiare e che ha con sé un mazzo di rose in disfacimento per Cassie, della quale è convinto di essere il figlio. Il terzo, numero 137, è un attore televisivo decaduto e con una vita segreta omosessuale che spera di tornare alla ribalta con il film e che ingurgita freneticamente pastiglie di viagra. I tre iniziano a parlarsi e a interagire con Sheila: ne uscirà il ritratto di quattro personaggi volutamente estremizzati nelle loro caratteristiche ma originali e a loro modo affascinanti, nel tipico stile di Palahniuk. Anche l'andamento della storia rispecchia la tradizione dei libri dell'autore di Fight Club: i colpi di scena e le rivelazioni controverse crescono con il passare delle pagine fino allo sconvolgente finale.
    Gang bang è uno dei romanzi stilisticamente meno oscuri e più scorrevoli di Chuck Palahniuk, ma non per questo mancano i suoi cavalli di battaglia, come i "cori" (formule ripetute molte volte nel testo), la critica sociale, non di rado sotto forma di satira, e le complesse digressioni su temi come i rapporti familiari, i compromessi a cui molte persone sono disposte a scendere per la fama, il sesso e la violenza. E' un libro coinvolgente e per certi versi scioccante che colpisce per l'incredibile forza espressiva di alcune scene chiave e per il modo crudo e diretto ma privo di giudizi morali con cui descrive il mondo ricco di fruitori ma semi-clandestino della pornografia. E' un'opera profondamente umana che, pur addentrandosi nei meandri dello squallore più sregolato, porta il lettore a provare un forte senso di empatia per i protagonisti e per i loro destini.
    In definitiva Gang bang è uno dei migliori lavori di Palahniuk, nel suo genere un capolavoro, consigliato ai lettori non impauriti dallo stile pulp e dai contenuti forti.

    In Italia Gang bang è edito da Mondadori; nella collana Piccola Biblioteca Oscar si compone di 208 pagine e ha un prezzo di 9,50 euro per l'edizione cartacea e di 6,99 euro per l'eBook Amazon Kindle.
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    CITAZIONE (Romeottavio @ 26/10/2013, 12:05) 
    CITAZIONE (Oskar @ 26/10/2013, 11:44) 
    E' il classico segreto di Pulcinella. Gli Stati europei devono fare la voce grossa per difendere il proprio prestigio internazionale pur sapendo da sempre che gli U.S.A. spiano tutto e tutti.

    Verissimo Oskar, ma non credo che a spiare siano solo gli USA, penso sia una prassi generalizzata, certo dipende dalle potenzialità di ogni singolo paese, ma un servizio segreto ce l'avrà anche il Burundi, e anche quello sfrutterà ogni sua possibilità per acquisire informazioni, lecitamente o meno.

    Totalmente d'accordo: gli U.S.A. spiano più degli altri solo perché hanno più mezzi per farlo, ma non sono certamente gli unici.
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    E' il classico segreto di Pulcinella. Gli Stati europei devono fare la voce grossa per difendere il proprio prestigio internazionale pur sapendo da sempre che gli U.S.A. spiano tutto e tutti.
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    Tempo fa scrissi questo approfondimento che aveva come nucleo centrale l'idea per cui il sistema formativo italiano, per poter migliorare, deve dare più spazio al merito e alla ricerca della qualità negli studenti. L'attuale ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, sostiene la tesi opposta: la scuola deve trasformarsi in un diplomificio di fatto. Vi riporto un interessante articolo di commento su questa sua, a mio avviso scriteriata, posizione:

    Se si boccia la bocciatura

    Per gli studenti non poteva esserci viatico migliore di quello della ministra Carrozza: «La bocciatura è utile soltanto in casi rari perché quando si entra a scuola si entra per uscirne vincitori con il diploma». Nessun discorso poteva illustrare meglio di questa frase l’ambiguità degli obiettivi dell’istruzione pubblica. La ministra in prima persona ci dice che la scuola in fin dei conti non è altro che una sorta di competizione sportiva che ha per traguardo il diploma. Il vincitore, cioè, non è lo studente preparato, ma quello diplomato. Non si tratta certo di una teoria nuova, tuttavia sino ad ora tale angolo di visuale era occupato dagli studenti e soprattutto dai loro genitori che, naturalmente, vogliono una sola cosa: la promozione, vale a dire un risultato, umanamente comprensibile, sul cui altare si è disposti a sacrificare tutto, qualità della preparazione compresa.

    Il fatto che oggi anche la ministra si collochi pubblicamente nella stessa prospettiva non ha però nulla a che fare con l’adesione a un qualche modello pedagogico, ma rappresenta solo uno dei tanti frutti avvelenati della crisi economica. «Bocciare» la bocciatura, insomma, è solo un espediente per tagliare la spesa pubblica e a ben guardare è anche un modo comodo con cui far passare un disinvestimento per una teoria pedagogica. Si tratterebbe, infatti, di un tipo di taglio che, unico al mondo, non provoca proteste e non causa scioperi; anzi, al contrario, procura consensi in quella larga parte dell’opinione pubblica che guarda con ansia non al tipo di preparazione dei ragazzi, ma solo all'esito finale di esami e scrutini. L’esternazione però è molto pericolosa perché la reticenza della ministra a segnalare i veri motivi di questo intervento finisce per avallare l’idea di un’indicazione politica ministeriale che non potrà non avere conseguenze a cascata sui presidi e sui consigli di classe di tutt’Italia.

    Il sacrosanto obiettivo di avvicinare allo zero il numero delle bocciature non può essere perseguito a suon di dichiarazioni, scaricando sugli operatori le responsabilità, ma solo con cospicui investimenti, vale a dire rafforzando qualitativamente e quantitativamente il corpo docente. Il resto è demagogia, a cominciare dal tentativo di trasformare la questione in uno scontro tra passatisti e progressisti. E se è vero che la bocciatura, come dice il ministro, «è un elemento di disagio del sistema educativo nel suo complesso», è altrettanto vero che ne rappresenta l’effetto, non certo la causa. Solo credendo realmente e dunque puntando sull’istruzione come potente fattore anticiclico si potrà fare un discorso non demagogico sul funzionamento del sistema scolastico. Se manca questa volontà politica, la promozione d’ufficio rappresenterà non l’attenzione delle pubbliche autorità verso i più deboli, bensì, al contrario, la loro indifferenza nei confronti di chi per tutta la vita dovrà convivere, diplomato o meno, con gli effetti catastrofici di una mediocre scolarizzazione.

    Fonte: http://corrieredibologna.corriere.it/bolog...IWO4WA.facebook
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    Questo è un tema che mi sta molto a cuore per ragioni personali e professionali; cercherò di essere breve nell'esporre alcune considerazioni:

    1. Nessuno propone di istituire uno ius soli puro: la cittadinanza andrebbe automaticamente solo ai nati in Italia figli di immigrati che risiedono nel nostro Paese regolarmente, stando a una proposta del PD della scorsa legislatura da almeno cinque anni (ma ovviamente sul termine si può discutere). L'immagine delle navi di clandestini piene di gestanti è quindi allo stato attuale uno spauracchio privo di fondamento.

    2. Perché un immigrato dovrebbe conformarsi alla nostra cultura (che cosa poi voglia dire "la nostra cultura" è una domanda a cui nessuno sa dare risposta) per avere accesso ai diritti di cittadinanza? Il rispetto della legalità è una cosa fondamentale e su questo siamo tutti d'accordo, ma per quanto riguarda i nostri usi e costumi, come ha ben detto lucrezio, ci sono moltissime categorie di italiani che ne sono estranei. Non si può limitare la libertà di espressione e di comportamento di chi risiede regolarmente in Italia.

    3. Il reato di clandestinità non ha senso: non è condizione necessaria per l'espulsione dei clandestini, non ha bloccato gli arrivi ed è solo un fardello giudiziario; i rimpatri, se conformi al diritto internazionale in materia di tutela di rifugiati, sono difendibili, il reato in sé a mio avviso no.

    4. Integrarsi senza passaporto: può essere una scelta per alcuni, per altri è solo un fardello: per tanti giovani stranieri nati e/o cresciuti in Italia vuol dire disagi burocratici, difficoltà ad accedere a progetti come l'erasmus e a concorrere per posti pubblici. In altre parole, significa discriminazione.

    5. Il ministro Kyenge ha detto che si sente sia congolese che italiana: non vedo dove stia il problema. Chi di noi ha un'identità monolitica al cento per cento italiana? Nessuno. Non c'è alcuna contraddizione nell'avere un'identità culturale composita. L'importante è il rispetto delle leggi italiane. Ulteriore considerazione: sentire i leghisti che da sempre sputano sul tricolore attaccare la Kyenge perché si sente italo-congolose è qualcosa di surreale.

    6. Questo è il punto più importante. Vorrei che qualcuno mi rispondesse a questa domanda: a un ragazzo nato in Italia o arrivato qui da piccolo, che ha frequentato le nostre scuole magari diplomandosi e che ha tutta la sua vita qui, cosa manca per essere italiano? Che senso ha per lui l'idea di un "rimpatrio" visto che è l'Italia la sua patria?
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    Bellissima idea Franco, un modo originale di parlare in breve dei nostri libri preferiti, spiegando perché vorremmo salvarli, ovvero le ragioni per cui desideriamo che la loro bellezza non vada dispersa in futuro.
    Complimenti a chi ha già scritto per gli ottimi titoli espressi.
    Inserisco la mia lista, precisando che non è una classifica delle mie preferenze ma solo un elenco.

    -1984 di George Orwell: un capolavoro, una descrizione dell'angoscioso orrore che è stato e di quello che sarebbe potuto essere. Imperdibile.
    -La fattoria degli animali di George Orwell: ovvero come la storia può essere ripercorsa in modo toccante e affascinante vedendola con gli occhi degli animali di una fattoria.
    -Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini: la magia dell'infanzia, il fascino di un romanzo scritto magistralmente: un libro che arricchisce il lettore come pochi.
    -Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez: un romanzo da preservare per un semplice motivo: è meraviglioso, il Capolavoro per eccellenza del realismo magico.
    -Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro: un libro da salvare perché fa sentire chi lo legge profondamente umano.
    -Stoner di John Williams: perché anche una vita umana ordinaria e per molti versi triste può trasformarsi in una storia commovente e indimenticabile se raccontata con maestria e dolcezza.
    -Il deserto dei tartari di Dino Buzzati: il romanzo che più di tutti mi ha toccato nel profondo, la traduzione su carta di tante inquietudini e dei dubbi che affliggono l'animo umano.
    -Due di due di Andrea De Carlo: una grande storia di amicizia che salverei per permettere ai giovani di leggerla anche nelle prossime generazioni.
    -Canale Mussolini di Antonio Pennacchi: quattro decenni di storia italiana e un'epopea familiare: imperdibile per amanti di romanzi e appassionati di storia.
    -Fight club di Chuck Palahniuk: il grido di disperazione dei giovani delusi e maltrattati dal mondo. Un romanzo da salvare, magari insieme ad altri di Palahniuk, per non dimenticare una generazione dimenticata.
    -Storia del Terzo Reich di William Shirer: questo non potevo non metterlo ;).

    Naturalmente salverei anche i capolavori per eccellenza della letteratura mondiale, da Omero a Virgilio a Dante a Shakespeare solo per citare qualche autore, ma nella lista ho voluto inserire solo i libri che più ho amato.
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    Il sistema formativo italiano a mio parere non funziona, anzi, è un sostanziale fallimento da quasi tutti i punti di vista. Non riesce a plasmare dei cittadini nel senso compiuto della parola, non fornisce ai nostri ragazzi i saperi necessari per la loro carriera professionale, è drammaticamente privo di collegamenti con il mondo del lavoro, non ha gli strumenti e le risorse per favorire l'integrazione, non valorizza i talenti e il merito, riproduce le disuguaglianze sociali e ritarda in maniera insostenibile l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro senza in cambio renderli più preparati rispetto ai loro coetanei degli altri Paesi europei. Il disastro complessivo è figlio di errori strutturali e di una serie di problemi irrisolti che affliggono ogni livello di istruzione e che, ripercuotendosi sui gradi successivi, creano una catena di carenze che dalle scuole primarie arriva fino alle università, formando una spirale viziosa che porta al drammatico risultato di avere laureati che non sanno scrivere e parlare correttamente neanche in italiano.
    Gli effetti delle carenze del nostro sistema formativo sono sotto gli occhi di tutti: masse di giovani istruiti senza lavoro, ignoranza dilagante (si pensi alle lingue straniere) che ci rende poco competitivi nei contesti internazionali, università piene di ex-giovani parcheggiati e comandate da baroni, lauree dal valore sempre più scarso per la mancanza di selettività del sistema e per la loro sostanziale inutilità nel mondo del lavoro, fuga di cervelli verso l'estero. Questi problemi hanno un'origine antica. Ritengo sia arrivato il momento di una serie di radicali riforme che tocchino ogni grado di istruzione e che ridiano un futuro al nostro sistema formativo e a chi dovrebbe esserne il protagonista, ovvero gli studenti. Desidero qui esporre alcune idee di cambiamento che ho maturato in anni di studio, riflessione e lavoro nella scuola e nell'università, pensate per tentare di porre rimedio ai problemi elencati all'inizio e che ora esaminerò più nel dettaglio.

    1. La durata del ciclo formativo e il "3 più 2"
    Ritengo sia necessario accorciare la durata complessiva del nostro ciclo formativo, intervenendo sia sulla scuola che sull'università. I nostri ragazzi devono potersi diplomare a diciotto anni, come avviene nella maggior parte dei Paesi occidentali; una soluzione può essere l'accorpamento di elementari e medie in un ciclo unico di sette anni, come proposto una decina di anni fa dal ministro Berlinguer, ma si possono trovare altre strade per ottenere questo risultato. Per quanto riguarda l'università è indispensabile abolire il disastroso sistema del 3 più 2 che serve solo per moltiplicare le cattedre e far perdere tempo ai giovani, spesso rallentati dall'inutile tesi triennale; il 3 più 2 inoltre tende a trasformare l'università in un parcheggio e a demotivare gli studenti, visto che nel biennio magistrale-specialistico si finisce più o meno per ripetere quanto già studiato nella triennale e che, comunque, non si fa quasi mai vera formazione per il mondo del lavoro. Infine il 3 più 2 va abolito perché dalla sua creazione ha contribuito ad abbassare il livello di serietà delle lauree, introducendo standard veramente bassi e avvilenti per il conseguimento del titolo e favorendo un'imbarazzante moltiplicazione di corsi di studio ridicoli e costosi. Il ritorno alle lauree quadriennali (con le ovvie eccezioni per alcune facoltà) è una soluzione semplice ed efficace, che permette di eliminare un anno di università tagliando i corsi ripetitivi.

    2. Il ruolo dei primi gradi di formazione
    E' opportuno ripensare il ruolo e le funzioni dei primi gradi di formazione, ovvero della scuola dell'infanzia (materna) e soprattutto di quella primaria (elementare): è necessario che essi lavorino per iniziare un percorso che renda i nostri ragazzi degli autentici cittadini, consapevoli dei loro diritti e doveri, stimolati a valorizzare i propri talenti e formati in nome dello spirito critico. E' indispensabile in questo senso introdurre fin dalle elementari alcune ore di educazione civica, educazione ambientale e al corretto utilizzo dell'acqua e educazione stradale, e riformare i metodi e i programmi di insegnamento introducendo spazi per la creatività, il confronto, la conoscenza della diversità e le idee. Inoltre è fondamentale aumentare fin dai primi gradi di istruzione le ore di studio delle lingue straniere. Lo spazio per queste novità può essere facilmente trovato prolungando di qualche ora la durata della giornata scolastica e tagliando le ore delle materie che forniscono ai bambini conoscenze spesso confuse e imparate a memoria e concetti che comunque ripeteranno nei successivi cicli formativi. Dobbiamo privilegiare per i nostri bambini la formazione vera rispetto a quella tradizionale, inadeguata per le esigenze del mondo di oggi.

    3. Il merito e il diritto allo studio
    Perché il nostro sistema formativo funzioni occorre riportare in auge, soprattutto nei gradi più alti di istruzione, due concetti in gran parte dimenticati: l'uguaglianza di opportunità e il merito. L'uguaglianza di opportunità si traduce nella ricerca dell'eccellenza dell'istruzione pubblica e nell'aumento delle politiche per il diritto allo studio; il merito in una maggiore selettività. L'attuale malcostume di far passare tutti è sbagliato e svilisce il talento, oltre a creare disoccupazione. L'istruzione superiore e ancor di più quella universitaria devono essere di élite; si badi, non economicamente di élite, cosa inaccettabile e contraria ai principi più autentici della democrazia, ma culturalmente di élite, per permettere la mobilità sociale in base al merito, motivare tutti all'impegno e al lavoro e non illudere generazioni di futuri disoccupati.
    Merito e uguaglianza, valorizzazione del talento e diritto allo studio non sono affatto inconciliabili nella scuola e nell'università, a patto di istituire, anche a costo di aumentare le tasse scolastiche e universitarie, adeguate misure atte ad abbattere i costi diretti e quelli indiretti (ovvero i mancati guadagni dovuti alla scelta di proseguire la carriera formativa) connessi allo studio. La situazione attuale fatta di titoli semplici da conseguire e che non valgono nulla contribuisce al perpetuarsi inter-generazionale delle disuguaglianze sociali. Far fallire il sistema formativo rendendolo una farsa accessibile a tutti ancorché gratuita non conviene a chi parte da una condizione svantaggiata, visto che solo il possesso di titoli seri, certificanti le qualità e l'impegno di una persona, può favorire la mobilità sociale.

    4. La formazione degli insegnanti
    E' doveroso migliorare la qualità dell'insegnamento; innanzitutto bisogna introdurre delle istituzioni, come erano le SSIS (le scuole di specializzazione all'insegnamento secondario), preposte alla preparazione dei professori delle scuole medie e superiori (la formazione dei maestri delle scuole primarie appare migliore grazie al corso di laurea dedicato). Dobbiamo abbandonare la logica, negativa per i ragazzi, delle assunzioni degli insegnanti per "diritto di anzianità" nelle graduatorie scolastiche e iniziare a selezionare il personale docente in base alle capacità didattiche. L'attuale prassi, anche se a prima vista può sembrare eticamente corretta, è in realtà una mostruosità perché spesso porta ad affidare un compito complesso come l'insegnamento a persone non adatte o non preparate.
    Per andare nella direzione del miglioramento della didattica è anche indispensabile rendere obbligatori gli aggiornamenti per gli insegnanti, infischiandosene delle proteste reazionarie dei sindacati che anche nell'ambito scolastico sono sempre del tutto disinteressati ai diritti dei giovani, come quello di avere un'istruzione di livello.
    Nell'università occorre potenziare le forme di controllo della qualità della docenza, valorizzando le opinioni degli studenti e combattendo il perdurante baronaggio con ogni mezzo.

    5. Titolo di studio e mercato del lavoro
    I gradi superiori di istruzione devono avere collegamenti molto più organici con il mondo del lavoro, prevedendo spazi per l'apprendimento sul campo con mezzi come stage e tirocini, garantendo l'acquisizione di saperi pratici, come quelli legati all'uso del computer, accanto a quelli teorici e istituendo figure professionali all'interno delle scuole e soprattutto delle università preposte ad assistere i giovani laureati e diplomati nella difficile transizione al mondo del lavoro.
    Inoltre è giusto, anche moralmente, introdurre in diverse facoltà il sistema degli accessi programmati, al fine di non formare migliaia di futuri disoccupati.
    Per concludere occorre abolire il valore legale del titolo di studio, in particolare delle lauree, per mettere fine all'ingiustizia attuale per la quale un titolo conseguito in un ateneo farsa vale come uno sudato in un'università seria. Parimenti gli atenei devono iniziare a ricevere i finanziamenti davvero in base alla qualità della formazione e della ricerca che sanno esprimere, abbandonando la logica perversa dei contributi calibrati sul numero degli iscritti.
    Anche in questo caso il merito deve essere il cardine del cambiamento.

    6. Le nuove sfide e il ruolo della scuola e dell'apprendimento
    Il nostro sistema formativo deve mettersi al passo con le sfide del nuovo millennio, a partire da quella sempre più importante dell'immigrazione. E' necessario adottare alcune misure urgenti per combattere la segregazione scolastica degli alunni stranieri e istituire spazi e risorse, in collaborazione con il privato sociale e il mondo del volontariato, dedicati esclusivamente all'alfabetizzazione dei nuovi arrivati, che non devono essere vissuti solo come un problema ma anche come un'opportunità.
    Dobbiamo parallelamente tornare a valorizzare la scuola e a promuovere l'importanza dello studio e dell'apprendimento, smettendo di far passare la prima come l'ultima ruota del carro e il secondo come una cosa "da sfigati". La cultura è libertà e capacità di giudizio. Distruggendo con riforme scriteriate, tagli e vuota retorica la scuola, come si sta facendo da anni, si minano le basi stesse della democrazia.
    Il primo segnale di cambiamento deve essere l'aumento dei finanziamenti per la ricerca, sempre naturalmente erogati in base al merito delle università, perché la ricerca non può essere trattata come un fastidio inutile, visto che dalle capacità innovative che sapremo esprimere e dalla valorizzazione delle nostre menti più brillanti dipende il futuro del nostro Paese.

    Conclusioni
    Per dare ordine a quanto detto finora, riassumo sinteticamente le mie idee di riforma del nostro sistema formativo:
    1. Abbreviazione della durata del ciclo scolastico e diploma a 18 anni.
    2. Abolizione del "3 più 2", con annessa sforbiciata ai corsi inutili, e ritorno alle lauree quadriennali.
    3. Rivoluzione dei primi gradi di istruzione con l'introduzione di ore di formazione che vadano oltre l'insegnamento tradizionale.
    4. Maggiore selettività di scuole superiori e università basata sul merito, anche usando i numeri chiusi per non continuare a sfornare generazioni di precari.
    5. Aumento delle politiche di diritto allo studio.
    6. Introduzione di una vera formazione degli insegnanti, fine delle graduatorie e aggiornamenti obbligatori per il personale docente.
    7. Incremento dei collegamenti tra scuole e università da una parte e mondo del lavoro dall'altra, per combattere la disoccupazione giovanile.
    8. Abolizione del valore legale del titolo di studio.
    9. Finanziamenti agli atenei basati sul merito e la produttività.
    10. Radicale cambiamento della retorica e delle politiche sulla diversità nella scuola e sul ruolo dell'apprendimento e della conoscenza.
    11. Aumento dei finanziamenti alla ricerca e degli investimenti sul futuro.



    Edited by Oskar - 21/11/2014, 15:35
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    I nati negli anni '80 del secolo scorso, come me, sono cresciuti sentendosi ripetere in continuazione dai propri genitori quanto fossero fortunati. Nell'infanzia il pretesto per queste prediche erano i molti giocattoli che avevamo; nella giovinezza il fatto che possedessimo la televisione, a colori, con tanti canali e a volte perfino con un videoregistratore, mentre i nostri genitori erano cresciuti con un solo canale in bianco e nero, magari visto a casa di qualcun altro, perché non tutte le famiglie potevano permettersi un televisore.
    Effettivamente siamo cresciuti ricoperti di beni materiali di tutti i tipi, seppure in quantità minore dei nati negli anni '90 e nei primi anni 2000. Il primo periodo della nostra vita è stato caratterizzato dal trionfo della cultura dello spreco: spreco nel materiale scolastico, spreco nei giocattoli, spreco nelle attrezzature sportive, spreco in qualunque cosa. Lo spreco e il materialismo più bieco sono stati assunti a status symbol da quella maggioranza della popolazione che, avendo raggiunto un livello di reddito tale da potersi permettere di scialacquare del denaro, ha riempito le proprie case e i propri figli di beni inutili, come vestiti nuovi che sostituivano i vecchi ancora buoni ma non più alla moda. Tutto ciò era giustificato dall'idea di fondo secondo la quale la nostra generazione avrebbe sicuramente avuto molte risorse in più di quella precedente, così come i nostri padri avevano avuto immensamente più dei nostri nonni, in una prospettiva deterministica di crescita e progresso. Per questo risparmiare, riciclare, ottimizzare i costi sembravano cose inutili o, peggio, "da sfigati".
    Così siamo diventati una generazione molle, abituata ad avere tutto senza dover combattere e sudare per ottenerlo, incapace di condividere, generalmente maleducata e profondamente viziata. Siamo stati etichettati con tanti nomi sarcastici come "Generazione X" o "Generazione Playstation", tutti pensati per sottolineare la mancanza di sani valori della nostra generazione. In pochi hanno cercato di comprendere le ragioni profonde del nostro disagio, tenendo in considerazione le grandi sfide che la nostra generazione per prima ha dovuto affrontare: i divorzi in grande crescita, la drastica riduzione del tempo passato con genitori e parenti a causa dei nuovi stili di vita, la perdita di valori generale della società che ci ha profondamente segnato negli anni della socializzazione primaria, la cultura consumistica in cui siamo nostro malgrado cresciuti. La scarsa attitudine a condividere e collaborare da sempre rimproverataci ha radici profonde nella scomparsa degli spazi di gioco tradizionali, soprattutto nei contesti urbani, e nella loro sostituzione con tv e videogiochi, nonché nell'affermarsi del modello di famiglia a figlio unico. Il nostro essere viziati è figlio dei gravi errori commessi nell'ambito della nostra educazione, quando per sopperire alla mancanze di attenzioni siamo stati ricoperti di beni materiali.
    Solo in questi anni, però, la disastrosa educazione impartita alla nostra generazione sta mostrando i suoi frutti più drammatici, ben peggiori della mancanza di valori rinfacciataci da chi ne ha posto le basi. Con la grande crisi di questi anni, che è ben lungi dall'essere terminata, e con la stagnazione che seguirà, l'idea secondo la quale la nostra generazione avrebbe avuto molti meno problemi economici e sociali di quelle precedenti è andata in frantumi. Il mercato del lavoro non offre serie possibilità di inserimento ai giovani: chi sta frequentando o ha concluso l'università sa che ricerca e insegnamento sono porte quasi chiuse; nel pubblico impiego, che per anni ha assunto molte più persone di quelle di cui necessitava sprecando ingenti risorse, salvo raccomandazioni, si è praticamente tagliati fuori; le ditte private stanno chiudendo o delocalizzando in massa. Con la crisi si stanno nettamente accentuando le differenze socio-economiche tra una ristretta classe di ricchi, che gode di privilegi generalmente ereditari, e il resto della popolazione, alla quale restano solo lunghi anni di stages non pagati, contratti a termine, disoccupazione e precarietà. Una precarietà che non solo porta all'impossibilità di godere dei lussi nei quali siamo cresciuti, come le seconde case per le vacanze o le due o tre macchine per famiglia, ma che anche ci impedisce di progettare un futuro dignitoso, privando ad esempio le giovani coppie della possibilità di acquistare una casa con un mutuo.
    Viviamo in uno Stato nel quale il welfare è a misura solo dei pensionati e dove tutte le risorse sono destinate a mantenere sprechi intollerabili e abomini come i baby pensionati. Questa realtà, già di per sé drammatica, è resa ancor più grave dal divario tra le aspettative di lungo periodo inculcateci nell'infanzia e la realtà dei fatti, tra la prospettiva di stare meglio dei nostri genitori e l'evidenza dei fatti che parla di una generazione a cui il futuro è stato scippato e che dovrà affrontare tutti i tipi di crisi, da quelle economiche a quelle ambientali a quelle psicologiche. Quello che ci resta, insomma, è una situazione, per usare un termine caro al sociologo Emile Durkheim, di anomia, ovvero di mancanza di qualsivoglia punto di riferimento sociale, figlia di un distacco tra ambizioni e possibilità.
    Il disagio dei ventenni e trentenni si manifesta sotto diverse forme: uso dilagante di droghe e alcol; rassegnazione e fatalismo diffusi; mancanza di punti di riferimento culturali e loro sostituzione con personaggi di cartapesta come i protagonisti dei reality show, icone di un successo ottenuto senza fatica. Per provare a comprenderlo davvero non si può, a mio avviso, dimenticare la clamorosa contraddizione tra il futuro prospettatoci nei primi anni della nostra vita e la realtà che ci siamo trovati a fronteggiare quando ci siamo affacciati al mondo del lavoro.
    Con questo non voglio certo sostenere che la nostra è una generazione esente da colpe e che non possiamo fare nulla per cambiare la nostra situazione; desidero solo condividere alcune riflessioni che ho maturato in questi anni.
    Grazie in anticipo a chi, mio coetaneo o no, vorrà esprimere le sue opinioni sui miei pensieri.

    Edited by Oskar - 10/3/2015, 12:01
  12. .
    AVVERTENZA. Questo approfondimento è una tesina, scritta da me per il corso di storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, e per questo è diverso dagli altri inseriti da me sul forum: è molto più lungo e tocca argomenti che, normalmente, dividerei in più topic. Per questo motivo consiglio la lettura solo a chi abbia un interesse particolare per il tema o a chi sia realmente motivato.
    Ricordo la possibilità di contattarmi per avere chiarimenti su temi e fonti e, soprattutto, sottolineo che desidero essere avvertito via mail o messaggio privato qualora qualcuno volesse utilizzare il mio lavoro come spunto o materiale per percorsi o tesine. Grazie, buona lettura.

    IL CONTRATTUALISMO: LA CATEGORIA STORIOGRAFICA
    Con il termine "contratti di governo" si fa convenzionalmente riferimento agli accordi scritti stipulati tra alcuni sovrani europei e i loro sudditi più abbienti a partire dai secoli XV-XVI e definitivamente dal XVII. Essi sono stati definiti tali dalla storiografia in quanto facevano esplicitamente riferimento all' esercizio del governo e all' attuazione di jura et libertates dei sovrani, all' epoca legibus soluti, i quali, per motivi di ordine e tranquillità interna, concedevano dei privilegi (libertates) ad alcuni signori locali o ad alcuni territori. Alcuni storici hanno letto questi accordi, originariamente di tipo privatistico, in una chiave di "proto-costituzionalismo" in quanto per la prima volta degli accordi scritti comportavano la limitazione legale del potere monarchico anche se a vantaggio, inizialmente, solo di ceti numericamente insignificanti. E' questa la tesi dello studioso Antonio Marongiu che sostiene: "tali accordi diventarono norme di diritto pubblico" e, in quanto tali, vere leggi "costituzionali" che legavano anche il sovrano al rispetto dei patti, affermando il diritto dei sudditi di sottrarsi alla fedeltà verso la corona nel caso in cui essi non fossero stati rispettati. E' questa anche la tesi di John Locke, autore inglese del XVII secolo, padre del liberalismo contrattualistico, la cui riflessione illustrerò in seguito. Inoltre era comunemente accolta la teoria formulata da Pietro Belluga nello "Speculum principum" che sosteneva che nessun sovrano avrebbe potuto emanare atti e leggi che fossero in contrasto con i patti liberamente accettati da un suo predecessore per la legge della continuità dell' operato della corona. Dello stesso avviso furono anche gli studiosi francesi Bodin e Grégoire. Insomma il sovrano, pur essendo un princeps legibus solutus, dal momento in cui accettava di legarsi liberamente ad un patto non poteva essere considerato anche pactis solutus.
    La dottrina alla base dei "contratti di governo" dell' epoca moderna è stata chiamata, dai diversi studiosi, "pattismo" o "contrattualismo" senza tuttavia denotare concetti diversi. Il concetto di pattismo appartiene maggiormente alla storiografia iberica mentre quello di contrattualismo è, tradizionalmente, applicato allo studio della storia dell' Inghilterra ed è il caso che prenderò in esame.
    Il contrattualismo è, dunque, una dottrina filosofico-giuridica secondo la quale l' organizzazione della società si fonda su un accordo, sotto forma di contratto, tra il sovrano e gli individui suoi sudditi. Pur essendo sorta già in epoca medievale, la dottrina contrattualistica si affermò solo in seguito, tra il '500 e il '600, ovvero nel momento storico in cui iniziò a declinare l' idea dell' origine divina del potere politico; i sovrani europei si trovarono nella necessità di ricercare una nuova fonte di legittimazione del loro potere e la trovarono appunto nei "contratti di governo". Fu probabilmente proprio questa chiave di lettura del contrattualismo dell' epoca moderna a indurre lo studioso spagnolo José Antonio Maravall a definire il pattismo e il contrattualismo come fenomeni storici da collocarsi interamente all' interno dell' assolutismo. "Il re infatti", secondo Maravall, "aveva sempre e comunque l' ultima parola sulle decisioni e sull' interpretazione dei patti". Questa analisi, pur valida in alcuni specifici contesti storici, soprattutto alle origini del contrattualismo, risulta tuttavia parziale: i sovrani europei infatti nel corso dei secoli furono costretti a concedere, contro la loro libera volontà, accordi sempre più limitativi dei loro poteri, (si veda come esempio la Carte octroyée 'strappata' a Luigi XVIII dopo la Restaurazione) e, inoltre, la loro autonomia nell' interpretazione storicamente si è mostrata alquanto limitata.
    Il caso inglese, che ora prenderò in esame, risulta il più emblematico, benché non l'unico, per la nascita, lo sviluppo, le crisi e il definitivo affermarsi delle dottrine contrattualistiche e pattistiche. E sarà mio intento cercare di dimostrare quanto il caso inglese si differenzi dai casi degli altri paesi europei per la ricerca pacifica di compromessi politici e giuridici tramite quegli accordi scritti che costituiranno il nucleo della futura "costituzione" inglese.

    INGHILTERRA: LE ORIGINI MEDIEVALI DEL CONTRATTUALISMO DI EPOCA MODERNA
    Come detto il contrattualismo trova le sue origini già nel Medioevo. Ed è proprio in Inghilterra che già nel XIII secolo si ha l' elaborazione del primo grande documento della tradizione del contrattualismo europeo: la Magna Charta Libertatum, ovvero la "Grande Carta delle Libertà" (intese sempre come privilegi di tipo feudale), del 1215. La Magna Charta Libertatum rappresenta a tutti gli effetti l' inizio della grande tradizione contrattualistica inglese; il fatto poi che essa risalga alla prima metà del XIII secolo va a confermare la tesi, condivisa da molti studiosi, che sostiene che le origini dello stato moderno siano da ricercare nel Medioevo. La Magna Charta Libertatum infatti è unanimemente considerata come il documento precursore di altri quali la Petition of Rights e il Bill of Rights, entrambi redatti nel XVII secolo, che prenderò in esame in seguito. Essa rappresenta la prima vera concessione accettata da un sovrano inglese nei confronti di parte dei suoi sudditi. Il sovrano in questione è Giovanni Senza Terra che giunge ad un compromesso scritto con i baroni contro i quali aveva in precedenza combattuto a lungo arrivando così ad una conclusione pacifica dei contrasti interni, come (quasi) sempre nella storia inglese.
    L' accordo in sé non costituiva alcuna nuova legge ma era il suggello delle antiche 'libertà' (privilegi feudali) dei signori inglesi, che già esistevano nel diritto consuetudinario dell' Inghilterra feudale. Esso riconosceva e garantiva i diritti dell' aristocrazia inglese, della Chiesa e dei comuni di fronte al re: i più significativi da citare sono quello dell' impegno che prendeva il sovrano di non esigere nuovo tributi e/o aiuti militari senza il Consiglio Comune del regno, e quello del rispetto da parte del re della libertà personale, ovvero la garanzia che nessuno avrebbe potuto essere imprigionato senza il giudizio di un tribunale di suoi pari. Insomma, tutti gli aspetti della vita dei signori e degli ecclesiastici erano garantiti: i tributi economici, l' impegno nelle guerre e le garanzie giuridiche. In cambio da essi il re avrebbe avuto un' assoluta lealtà.
    La carta fu confermata due volte (nel 1217 e nel 1225) dal successore di Giovanni, Enrico III e, in seguito da Edoardo I e da Edoardo III. Col tempo, con l' avvicendarsi dei sovrani, e non senza contrasti, i privilegi sanciti dalla Magna Charta Libertatum diventarono realmente delle libertà poiché progressivamente furono estesi a tutti i cittadini inglesi.

    GLI STUART E LA ROTTURA CON I CONTRATTI DI GOVERNO
    A seguito dell ' approvazione della Magna Charta Libertatum l' Inghilterra conobbe secoli di guerre, contro la Francia (la Guerra dei cent' anni), e al suo stesso interno per la successione dinastica al trono (la Guerra delle due rose: Lancaster contro York). Tuttavia l' istituzione monarchica, grazie al sostanziale rispetto degli accordi tra il sovrano e gli aristocratici che sedevano nel Parliament di sua maestà, non conobbe reali crisi interne fino al XVII secolo.
    Nel 1603 il re di Scozia, Giacomo VI Stuart, divenne per eredità re d' Inghilterra con il nome di Giacomo I: egli, attuata l' unione personale delle due corone (ma non quella nazionale), suscitò l' ostilità del Parlamento a causa della sua politica mirata al raggiungimento dell' assolutismo monarchico. Le cose precipitarono con il regno di suo figlio, Carlo I Stuart, iniziato nel 1625. Questi, incurante degli accordi presi dai suoi predecessori, continuò ad imporre, scavalcando il Parlamento, nuovi tributi, il prestito forzoso, l'arresto arbitrario e l' arruolamento forzato dei cittadini, nonchè l' alloggiamento di soldati e marinai nelle case private, in aperta violazione della Magna Charta Libertatum. L' opposizione della Camera dei Comuni si fece evidente in occasione della sua convocazione nel 1628. Approfittando delle difficoltà economiche in cui il sovrano si trovava a seguito dei rovesci subiti in Francia per l' aiuto prestato agli Ugonotti contro Richelieu, la Camera presentò e impose un nuovo contratto di governo: la Petition of Rights, la Petizione dei diritti. In cambio dei sussidi necessari all' esercito, la Camera dei Comuni pretese dal sovrano l' osservanza delle 'libertà' sancite dalla Magna Charta Libertatum e più volte confermate da diversi sovrani d' Inghilterra. Carlo I fu costretto ad accettare il nuovo contratto di governo che, in realtà, non faceva altro che ribadire gli accordi già presi fra Lords spirituali e temporali e i Comuni e il re oltre quattro secoli prima. Tuttavia la Petiton of Rights, pur approvata, rimase inoperante poiché il re, una volta sciolto il Parlamento, tornò alla prassi del governo personale: così si consumò la prima vera rottura tra la corona e il Parlamento e la prima aperta prevaricazione da parte di un sovrano inglese dei contratti di governo liberamente stipulati con i Lords suoi sudditi.
    Fu prorpio in questo contesto che si consumò la prima e unica crisi dell' istituzione monarchica in Inghilterra tale da minacciarne la stessa sopravvivenza. Carlo I, contravvenendo ancora una volta ai suoi obblighi, non convocò più il Parlamento fino al 1640 quando fu costretto a riconvocare le camere per ottenere ulteriori fondi per fronteggiare l' insurrezione calvinista della Scozia. Dopo averlo immediatamente sciolto (per questo fu denominato'short parliament'), fu costretto a riconvocarne uno nuovo che rimase in carica fino al 1653 (il cosiddetto 'long parliament'). Questo Parlamento riuscì ad imporre al sovrano una serie di limitazioni al suo potere.
    Due anni dopo Carlo I tentò un nuovo colpo di stato. Questa volta però, caso più unico che raro, i Lords inglesi non cercarono più di protestare mediante una carta che costituisse un compromesso con la corona ma scelsero la strada dell' insurrezione violenta. Così nel 1642 scoppiò la guerra civile tra il re e il Parlamento, guidato dal puritano Oliver Cromwell. Si tratta dell' episodio passato alla storia come Prima Rivoluzione inglese. Dopo numerose sconfitte il re fu catturato dagli scozzesi e consegnato al Parlamento nel 1647. Nel 1649 riuscì a fuggire ma fu nuovamente catturato e processato da un tribunale allestito dalla Camera dei Comuni pur con l' opposizione di quella conservatrice dei Lords. I resoconti del processo che portò infine alla decapitazione di Carlo I costituiscono alcuni dei più interessanti documenti per comprendere quale importanza la corte dei Comuni inglesi desse ai contratti di governo stipulati con la corona. Nel corso del processo, infatti, la Corte afferma più volte che neanche il sovrano è al di sopra delle leggi e che, anzi, egli deve governare nel pieno rispetto delle leggi stesse. E qui è chiaro il rimando alla mancata applicazione delle 'libertà' sancite dalla Magna Charta Libertatum, ribadite dalla Petition of Rights, e regolarmente non osservate dal sovrano. Inoltre essa ribadisce l' importanza del Parlamento, non convocato da Carlo I per ben undici anni, come suprema Corte di giustizia. Infine la Corte si spinge storicamente oltre la verità dei fatti sostenendo che il re è stato "chiamato" a regnare, affermazione che costituisce un importante appiglio per Carlo I per cercare di metterne in dubbio l' autorità e la credibilità, sua unica linea di difesa nel corso di tutto il processo. La Corte però afferma di operare nel nome di tutto il popolo inglese cui il re chiamato in giudizio risulta minore pur essendo un cittadino superiore agli altri singolarmente presi. Così Carlo I Stuart, il primo re della storia dell' Inghilterra a tradire apertamente i patti sottoscritti con i suoi sudditi fu decapitato in seguito a a sentenza pronunciata da un' alta Corte di nomina parlamentare. Successivamente per un decennio il governo fu assunto da Cromwell, il generale che con la sua 'New model army' aveva vinto la guerra civile. Questi istituì un regime repubblicano, il Commonwealth, nel tentativo di ridare importanza al Parlamento e abolì la chiesa anglicana di stato istituendo una avanzatissima libertà religiosa. Tuttavia, anche a causa di una politica estera aggressiva che coinvolse l' Inghilterra in continue guerre, la nuova repubblica voluta dal lord inglese si rivelò ancora una volta, nei fatti, un governo personale e autoritario. Così alla morte di Cromwell nel 1656 sfumò l' unico momento storico nel quale l' Inghilterra sarebbe potuta diventare una repubblica.

    LA RESTAURAZIONE DEGLI STUART E IL RITORNO DEI CONTRATTI DI GOVERNO
    Nel 1660 in Inghilterra fu restaurata la monarchia e con essa la dinastia degli Stuart nella persona di Carlo II Stuart, figlio di Carlo I e capo della resistenza monarchica alla repubblica di Cromwell. Così il processo rivoluzionario inglese si compì. Nonostante ai nostri occhi ciò possa sembrare un fallimento della rivoluzione storicamente non è tale. Le nostre categorie storiografiche, figlie della rivoluzione francese, ci hanno abituato a pensare alla rivoluzione come ad un cambiamento rapido, profondo e duraturo dello status quo. Al contrario gli inglesi vissero la rivoluzione in senso, si può dire, 'letterario': come un movimento circolare in cui al cambiamento delle cose seguisse il ritorno alla situazione passata. Carlo I si era macchiato del reato di aver deliberatamente ignorato i patti stipulati con i suoi sudditi e di aver così violato la stato delle cose che durava in Inghilterra da oltre quattro secoli. Per questo si era resa necessaria una rivoluzione che riportasse la situazione allo stato precedente al colpo si stato del sovrano. E così fu: Carlo II divenne re sotto giuramento di rispettare le garanzie costituzionali concesse alla vigilia della restaurazione, tra le quali spiccava una moderata libertà religiosa.
    Tuttavia egli, come il padre, esercitò una politica assolutistica esautorando il Parlamento per lunghi periodi. Inoltre tentò una grande restaurazione cattolica alla quale il Parlamento rispose con il Test act del 1673 che escludeva proprio i cattolici dagli uffici pubblici. Morto Carlo II gli succedette al trono suo figlio, Giacomo II, che tentò una nuova restaurazione cattolica. A questo ulteriore atto di prevaricazione delle camere, delle leggi e degli accordi di governo il Parlamento rispose allontanando Giacomo II e dichiarandolo decaduto dalla carica di re. Al suo posto instaurò come regnanti Maria, figlia di Giacomo II, e suo marito, Guglielmo III d' Orange, statolder di Olanda, ricorrendo al più significativo dei contratti di governo dell' Inghilterra nell' epoca moderna: il Bill of Rights. Questo episodio è passato alla storia come Seconda rivoluzione inglese o 'gloriosa rivoluzione', poiché non comportò spargimenti di sangue. Il Parlamento inglese riuscì infatti a vincere i tentativi assolutistici di re Giacomo II semplicemente allontanandolo e instaurando al suo posto sua figlia e suo genero facendo loro sottoscrivere un nuovo contratto di governo e, soprattutto, senza dover impugnare le armi. Nella 'gloriosa rivoluzione' non fu insomma l' istituzione della monarchia ad essere messa in discussione quanto piuttosto un singolo sovrano che aveva cercato di ignorare gli accordi presi dalla corona con i suoi sudditi.
    Il Bill of Rights del 1689 rappresenta per molti versi il contratto di governo più importante della storia inglese. Un vero e proprio patto vincolante per i nuovi sovrani. Grazie ad esso, infatti, per la prima volta nella storia inglese sono esplicitamente i Lords spirituali e temporali e i Comuni riuniti in un Parlamento legittimato da elezioni, seppure a base fortemente censuaria, ad insediare i sovrani d' Inghilterra, nelle persone di Guglielmo d' Orange e Maria Stuart. Inoltre il loro insediamento è esplicitamente subordinato all' osservanza da parte dei nuovi sovrani di tutte le rivendicazione espresse nei tredici punti della Carta dei diritti. Tra esse spicca la prima che afferma che "il preteso potere di sospendere le leggi, o l' esecuzione delle leggi, per autorità regia, senza il consenso del Parlamento è illegale. Che il preteso potere di dispensare dalle leggi, o dall' esecuzione delle leggi, per autorità regia, come è stato affermato ed esercitato recentemente (da Giacomo II e prima ancora da Carlo I ndr) è illegale". Poi si ribadiscono alcune antiche 'libertà', ovvero degli antichi privilegi, del Parlamento: quello secondo il quale il sovrano non può imporre nuove tasse senza l' approvazione delle camere e quello secondo il quale il re non può avere un esercito perennemente mobilitato se non in tempo di guerra. Inoltre il Parlamento ribadisce il diritto per i cittadini ad avere dei giusti processi; in più si affermano la libertà nell' elezione del Parlamento e la libertà di parola e di dibattito all' interno di esso.
    Insomma il Bill of Rights legava inscindibilmente l' attività della corona a quella del Parlamento trasformando definitivamente l' Inghilterra in una moderna monarchia parlamentare, dando nello stesso tempo i fondamenti del liberalismo inglese dei secoli successivi quando le 'libertà' di tipo feudale diventeranno autentiche libertà, per tutti.

    LE BASI FILOSOFICHE DEL CONTRATTUALISMO INGLESE: THOMAS HOBBES E JOHN LOCKE
    Nell' Inghilterra del XVII secolo le dottrine contrattualistiche trovano la massima espressione non solo nella pratica di governo con i contratti tra re e Parlamento, ma anche nella loro dimensione puramente filosofica. Nella tradizione filosofica inglese di epoca moderna si segnalano infatti i due padri del contrattualismo: Thomas Hobbes e John Locke, in ordine cronologico. L' evoluzione nel pensiero contrattualista da Hobbes a Locke riflette diacronicamente lo sviluppo storico inglese e dimostra come, nel contempo, nel XVII secolo in Inghilterra gli sviluppi storico-politici avessero una forte base filosofica alle spalle.
    Thomas Hobbes nasce nel 1588 e pubblica la sua opera più importante, il "Leviatano", nel 1651, ovvero all' epoca della prima rivoluzione inglese, solo due anni dopo la storica condanna a morte di re Carlo I. Pensatore partigiano della monarchia assoluta, Hobbes cerca di conferirle un fondamento legittimante nel contrattualismo. Con la sua riflessione si apre 'ufficialmente' il dibattito filosofico sulla natura della legittimità del potere monarchico: come già detto infatti le spiegazioni contrattualistiche appaiono quando il riconoscimento della natura divina del potere del monarca viene a scomparire. E' proprio in quel momento storico che diviene necessaria una "razionalizzazione del potere", come la chiama Portinaro, ovvero una ricerca di fonti che lo legittimino: se il 'mito' del potere divino, e perciò assoluto, mostra la sua insufficienza, allora i pensatori filo-monarchici come Hobbes devono trovare nuovi fondamenti per tutelare l' istituzione della corona. Ovviamente il problema appena illustrato è di antica origine, soprattutto in Inghilterra: proprio in questo senso si può leggere l' approvazione della Magna Charta Libertatum. E' però altresì evidente che esso si presenta in maniera ben più imponente in un momento di crisi delle autorità quale il contesto rivoluzionario della metà del '600 in Inghilterra. Così l' obiettivo di Hobbes è quello di passare da un potere regale di tipo tradizionale a uno di tipo legale-razionale, senza però cambiarne le prerogative assolute. Ed è qui che sta l' insufficienza del pur fondamentale pensiero del filosofo inglese padre del contrattualismo.
    Hobbes cerca i fondamenti della necessità del contratto sociale nello stato di natura collegandosi così alla dottrina filosofica che sta alla base del contrattualismo, ovvero il giusnaturalismo. Tale dottrina, che trova in Jean Bodin e Ugo Grozio i suoi massimi esponenti nel '500-'600, postula l' esistenza di un diritto naturale anteriore alle stesse leggi delle quali dovrebbe anzi essere il fondamento. Essa teorizza così l' esistenza di una serie di diritti inalienabili dell' uomo delegittimando teoricamente l' assolutismo regio. La dottrina giusnaturalistica costituirà proprio con il contrattualismo la base filosofica per le grandi dichiarazioni dei diritti di fine '700. Ovviamente Hobbes, con il fine di legittimare la monarchia assoluta, fornisce una nuova chiave di lettura dei diritti naturali dell' uomo e dello stato di natura. Egli infatti sostiene che lo stato di natura corrisponde a uno stato di guerra permanente, tutti contro tutti, che è necessario superare per costruire la società. Lo stato di natura contrappone tra loro gli uomini e genera parallelamente in essi il terrore della morte: "l' uomo è un lupo per l' altro uomo", sostiene Hobbes. Per queste ragioni, secondo il filosofo inglese, si rende necessario un contratto tra gli individui i quali rinunciano ai loro diritti naturali a vantaggio di un terzo estraneo, lo Stato, il "grande Leviatano" , rappresentato spesso come un' enorme balena che assorbe tutto. In cambio lo stato, utilizzando i poteri pubblici che gli derivano dalla cessione dei diritti individuali di ciascuno, garantisce la sicurezza della collettività e del suo unico diritto residuo: quello alla vita. Questa impostazione, secondo Hobbes, è anche una ricetta contro la tirannia, fonte di insicurezza e, quindi, di rottura del contratto e della fine della legittimazione razionale del potere dello Stato. Ovviamente l' enorme potere che Hobbes vede concentrato legittimamente secondo contratto nelle mani del 'Leviatano' è sottointeso essere nelle mani di colui che è a capo dello Stato, ovvero il re.
    Appare evidente l' importanza di queste teorie in un momento storico nel quale il re era appena stato giustiziato per aver esercitato per anni un potere assoluto, ovvero sciolto dalle limitazioni previste dai contratti di governo e dal potere del Parlamento. Hobbes si produce in un tentativo di legittimazione teorica del potere assoluto del sovrano al fine di perorarne una restaurazione. Appare però altrettanto evidente come il suo pensiero risulti superato dagli avvenimenti che si susseguirono nel XVII secolo e che portarono infine alla nascita di una compiuta monarchia parlamentare in Inghilterra. Detto questo occorre anche riconoscere che le riflessioni di Hobbes hanno il grande merito di aver posto al centro del dibattito filosofico il tema della legittimazione razionale del potere e di aver costituito la prima forma di contrattualismo teorico compiuta, aprendo la strada a Locke, oltre ad aver introdotto il concetto di legittimazione popolare, anche se solo in un momento pre-contrattuale.
    John Locke, che nasce nel 1632 e scrive intorno al 1690, è unanimemente riconosciuto come il filosofo della seconda rivoluzione inglese e come il padre del liberalismo. La sua opera più importante, il "Secondo trattato sul governo" o "Saggio sul governo civile", si muove nel solco delle dottrine contrattualistiche e si dimostra come una naturale evoluzione di stampo liberale del pensiero di Hobbes. Locke ha anch' egli come punto di partenza per la sua riflessione lo stato di natura e i diritti naturali dell' individuo che, però, riconosce come inalienabili perchè insiti nella natura stessa dell' essere umano: questi diritti sono per Locke l' integrità personale e la proprietà privata derivante dal lavoro. Per questo egli è a ragione considerato il padre del liberalismo individualistico. I diritti inalienabili dell' individuo devono essere sanciti con dei contratti di governo e qualora il governo, nel caso inglese il sovrano, non li rispetti, il popolo è autorizzato a ribellarsi grazie al diritto alla disobbedienza civile. Insomma la riflessione di Locke è una grande arma contro l' assolutismo e per questo si pone in contrasto con il pensiero di Hobbes.
    Così come appariva evidente l' importanza del pensiero di Hobbes nel contesto delle prima rivoluzione inglese altrettanto appare basilare l' apporto teorico di Locke nel contesto della 'gloriosa rivoluzione'. Le conclusioni a cui arriva il Bill of Rights, le sue conquiste di tipo liberale, il diritto alla delegittimazione popolare del sovrano assoluto, espresso già nel processo a Carlo I e poi nella destituzione di Giacomo II, trovano infatti la loro definitiva legittimazione filosofica nel pensiero del padre del liberalismo, l' inglese John Locke.
    Le riflessioni di Hobbes prima e di Locke poi costituiranno nei successivi secoli la base per le riflessioni che porteranno all' elaborazione compiuta del concetto si sovranità popolare, su tutte quella di Jean-Jacques Rousseau, che troverà la sua espressione politica inizialmente nella Rivoluzione francese e poi nel contrattualismo inglese di epoca contemporanea.

    DAL CONTRATTUALISMO AL COSTITUZIONALISMO: L' INGHITLERRA IN PROSPETTIVA COMPARATA
    Dopo aver illustrato i principali contratti di governo inglesi di epoca medievale e moderna e averne ricercato le basi filosofiche in due grandi pensatori, sarà ora mio intento fornire una convincente chiave di lettura di essi come documenti che hanno aperto la strada al costituzionalismo in Inghilterra. Cercherò inoltre di dimostrare come, proprio grazie ai contratti di governo, il caso inglese si sia domostrato nel suo percorso e nei suoi sviluppi assai differente da quello di altri paesi nel percorso che porta ad un moderno stato costituzionale e liberale.
    Per farlo credo sia utile partire dalla definizione di contrattualismo, ovvero: "complesso dei principi e delle regole che contraddistinguono la forma di governo detta costituzionale, sorta come reazione allo stato assoluto e fondata su un insieme di norme stabili, scritte e contenute appunto in una costituzione". Il concetto di costituzionalismo, categoria storica e storiografica su cui gli storiografi hanno a lungo dibattuto, è ora quasi unanimemente messo in stretta correlazione con la libertà e, soprattutto, con la separazione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Insomma, le caratteristiche di uno stato che si fonda sulla dottrina costituzionalista sono: separazione dei poteri come risposta all' assolutismo monarchico, libertà e presenza di norme scritte in una costituzione, tre elementi che l' Inghilterra ha sviluppato per prima proprio grazie ai contratti di governo, alle Carte di cui ho già avuto modo di parlare.
    Partiamo dalla separazione dei poteri. In Inghilterra il Parlamento fa la sua comparsa ufficialmente, ovvero in un contratto di governo, già con la Magna Charta Libertatum seppur ad uno stadio embrionale. Il Consiglio comune del regno infatti, come detto, sarà il nucleo del futuro Parliament inglese. Proprio con esso inizia la compartecipazione delle Camere al potere legislativo e a quello giudiziario che, insieme all' esecutivo, erano da sempre stati ad appannaggio del sovrano assoluto. Le altre Carte hanno seguito nei secoli la medesima linea. Con la Petition of Rights e, soprattutto, con il Bill of Rights il Parlamento inglese ha rivendicato e ribadito l' impossibilità del sovrano di legiferare senza l' approvazione del Parlamento.
    Per quanto riguarda il potere giudiziario il solo fatto che un re sia stato processato e condannato a morte da una Corte di nomina parlamentare indica che non era più nelle mani della corona fin dal XVI secolo. Dunque solo il potere esecutivo rimane nelle mani del sovrano. Per quanto riguarda le obiezioni circa l' esistenza di poteri legislativi concorrenti al Parlamento in Inghilterra risultano convincenti le contro-argomentazioni del costituzionalista Albert Dicey: Egli sostiene: "il Parlamento inglese, ovvero l' unione del re e delle Camere (il 'king in Parliament') non ha più avuto poteri concorrenti legalmente dall' abrogazione dell' Atto 31 del 1539" di Enrico VIII, avvenuta nel 1610. L' Atto 31 conferiva alla corona il diritto di legiferare da sola, tramite proclami. Dopo decenni di contestazioni fu abolito da una corte di giudici che lo decretarono incompatibile con la separazione dei poteri e con il ruolo del Parlamento, detentore unico del potere legislativo. I tentativi dei sovrani di scavalcare il Parlamento e la sua autorità dopo la sentenza del 1610 sono da considerarsi illegali. Insomma si può con sicurezza affermare che la separazione dei poteri in Inghilterra, iniziata con la Magna Charta Libertatum, trova definitivamente le basi per il suo compimento ottocentesco già nel Bill of Rights.
    Per quanto riguarda la libertà le sue origini in Inghilterra vanno ancora una volta ricercate nella Magna Charta Libertatum. Qui troviamo teorizzate per la prima volta in maniera scritta le 'antiche libertà' dei lords inglesi, che all' epoca non erano che privilegi di tipo feudale. Tuttavia con il Bill of Rights e con la filosofia liberale di Locke esse iniziano a diventare il nucleo della libertà individuale, civile e politica, dei cittadini inglesi che, nel corso dell' '800 e del '900, saranno progressivamente compresi nel computo dei cittadini a tutti gli effetti. Per questi motivi si può affermare che il concetto di libertà sia stato introdotto con forza dai contratti di governo medievali e di epoca moderna.
    Infine, per quanto riguarda la presenza di norme scritte raccolte in una carta costituzionale, i contratti di governo sono le prime. L' Inghilterra infatti non ha una vera e propria Costituzione, ma si basa su un insieme di Carte sovrapposte che trovano la loro legittimità nel diritto consuetudinario inglese. Esse sono sempre valide, salvo una loro abrogazione e, dato che i contratti di governo di cui abbiamo parlato non sono mai stati abrogati, essi sono appunto da considerare le prime Carte di quella che possiamo chiamare la 'Costituzione inglese'.
    Per tutti questi motivi si può sostenere con convinzione che è proprio grazie agli accordi presi nelle Carte di governo che l' Inghilterra ha abbracciato, per prima e in maniera pressoché completa nelle sue linee di base, il costituzionalismo.
    La particolarità che rende il caso inglese estremamente interessante dal punto di vista storiografico è che l' approdo inglese al costituzionalismo e a un moderno stato parlamentare e liberale è avvenuto con anticipo rispetto al resto d' Europa e, soprattutto in maniera (quasi) sempre pacifica e graduale, attraverso patti e compromessi. La stessa prima rivoluzione inglese, unico momento di aperto conflitto tra istituzioni nel percorso inglese verso la democrazia liberale e la monarchia parlamentare costituzionale, scoppiò per la responsabilità personale di un sovrano che volle prevaricare i contratti sottoscritti dalla corona.
    Questo particolare percorso verso il moderno costituzionalismo è pressoché unico nel contesto europeo, (e non solo europeo), di epoca moderna e, perciò, fonte di grande dibattito storiografico. La spiegazione storica più diffusa, ma insufficiente, è quella che vede nell' insularità dell' Inghilterra la principale ragione della sua straordinaria peculiarità. Ma, andando più a fondo, emergono ben altre ragioni oltre a quella dell' isolamento geografico.
    Compagna evidenzia: "nel costituzionalismo inglese manca un elemento portante: il potere costituente", fondamentale nel caso della Francia e in quello dell' America post-rivoluzionarie. Ciò fa sì che studiosi come Sieyès definiscano "vero costituzionalismo" solo quello francese e americano. Tuttavia l' Inghilterra non ha avuto un potere costituente solo perchè non ne ha mai avuto davvero la necessità storica. L' Inghilterra, come afferma Burke, ha contrapposto ai cambiamenti tumultuosi e violenti del resto del mondo una valorizzazione costante degli insegnamenti dell' esperienza. Ha prediletto la conservazione e il compromesso ai cambiamenti ex novo e alle insurrezioni armate. Ha preferito mantenere i poteri tradizionali venendo a patti con essi invece che combatterli e cambiarli. Ha preferito avere fiducia nella tradizione che nella ragione.
    Così facendo gli inglesi hanno lasciato il primato culturale e teorico al sentiero francese e, in parte, americano; in compenso hanno costruito un percorso assolutamente lineare e senza spargimenti di sangue, fatta eccezione per il caso della rivoluzione di Cromwell che, per i motivi già detti, può essere considerata una sorta di "eccezione che conferma la regola". Ma un altro elemento ha contraddistinto il sentiero inglese verso il costituzionalismo, ovvero la capacità dei lords di non scendere mai a compromessi che rappresentassero un passo indietro rispetto alle conquiste già ottenute. La capacità di guardare sempre in avanti e mai indietro ha permesso agli inglesi di precedere di diversi secoli i francesi, i tedeschi, gli spagnoli e gli italiani nell' approdo a un moderno stato costituzionale e parlamentare; parallelamente ciò li ha messi al riparo da ogni rovescio di stampo totalitario o autoritario.
    Non è un caso che, nel corso del '900, l' unica nazione europea per nulla tentata dai venti totalitari che spiravano nel vecchio continente sia stata l' Inghilterra: quel vento non potè scalfire le basi rocciose e secolari su cui si era progressivamente sedimentata in oltre sette secoli la democrazia liberale, parlamentare e costituzionale inglese.

    FONTI BIBLIOGRAFICHE:
    -A. De Benedictis, "Politica, governo e istituzioni nell' Europa moderna", il Mulino, Bologna 2001
    -Enciclopedia della storia a cura di Renzo De Felice e altri, De Agostini, Novara 1995
    -G. Dall' Olio, "Storia moderna", Carocci, Roma 2004
    -A. Giardina, "Profili storici", Laterza, Roma 2004
    -M. Lallement, "Le idee della sociologia", Edizioni Dedalo, Bari 1996
    -Albert V. Dicey, "Introduzione allo studio del diritto costituzionale-Le basi del costituzionalismo inglese", il Mulino, Bologna 2003
    -L. Compagna, "Gli opposti sentieri del costituzionalismo", il Mulino, Bologna 1998
    -P. Portinaro, "Stato", il Mulino, Bologna 1999
  13. .
    LE PREMESSE DEL TENTATO COLPO DI STATO
    Siamo nel 1923. La carriera politica del giovane Adolf Hitler è agli inizi. Grazie alla sua eccellente oratoria, però, il futuro Führer è già divenuto il leader incontrastato del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP).
    Lo NSDAP era però ancora poco più che una setta all’ inizio del ‘23, attivo solo in Baviera e con un seguito minuscolo, anche se in ascesa.
    Il partito, però, aveva un grande punto di forza: la devozione dei suoi membri, uomini profondamente nazionalisti, animati potentemente dai loro ideali para-socialisti e pronti ad usare la violenza per prendere in breve il potere in Baviera e poi in tutta la Germania, con l' obiettivo di far rinascere il loro paese, stremato dalle conseguenze della Prima guerra mondiale.
    Nel corso del 1923 lo NSDAP raccolse massicce nuove adesioni, soprattutto negli ambienti dei reduci e tra gli ufficiali, pieni di risentimento per l' ingloriosa fine delle guerra e fieri oppositori della Repubblica di Weimar, che aveva firmato l' umiliante Trattato di Versailles. Tra questi ultimi spiccava il generale Erich Ludendorff, il geniale stratega tedesco che nel corso della Prima guerra mondiale aveva fatto tanto penare gli eserciti della Triplice Intesa. In quell' anno iniziarono a confluire anche i primi finanziamenti al partito nazista dal mondo imprenditoriale.
    Hitler e i suoi fedelissimi, tra cui figuravano Goering, all' epoca capo delle Squadre d' Assalto (SA), Hess e la guardia del corpo di Hitler, il grezzo Ulrich Graf, erano decisi a prendere il potere attraverso la violenza, senza perdere tempo nell' 'istituzionalizzare' il loro movimento, cosa che Hitler fece dopo il fallimento del "putsch".
    I nazisti organizzarono il loro colpo di stato per prendere il governo della Baviera e al contempo, perché fosse il primo passo verso la conquista del potere nell' intero Reich. Sapevano che la Repubblica di Weimar era debole e che l' impresa poteva riuscire, così come aveva avuto successo, appena un anno prima la "marcia su Roma" dei fascisti (si noti come Mussolini sia da subito fonte d' ispirazione per Hitler).

    IL LEGGENDARIO "PUTSCH" DELLA BIRRERIA
    La sera dell' 8 novembre 1923, dopo diversi rinvii, Hitler e i suoi passarono all' azione assaltando in forze la grande birreria ‘Bürgerbräukeller’ nel cuore di Monaco, dove si trovavano in quel momento i tre personaggi politici più importanti di tutta la Baviera: Kahr, commissario di Stato e paradittatore della regione, von Lossow, comandante della Reichswehr (l’ esercito) in Baviera e von Seisser, capo della polizia locale. Kahr stava parlando a tremila civili bavaresi delle sue cause indipendentiste quando circa seicento SA hitleriane circondarono l' edificio piazzando una mitragliatrice all' ingresso.
    Hitler prese l' iniziativa in prima persona; con una rivoltella sparò un colpo in aria e minacciò i membri del 'triumvirato bavarese' di morte, intimandoli di cedere il loro potere e unirsi a lui e a Ludendorff, inizialmente del tutto all' oscuro del complotto, offrendo loro posti di prestigio nel futuro governo nazista della Baviera. Mentendo spudoratamente disse anche che la rivoluzione della svastica era in atto in tutto il paese ed era inarrestabile. Kahr, che pure era un uomo dal cervello fino, si oppose coraggiosamente a Hitler, forse comprendendo il bluff di quest' ultimo, ma comunque in modo ammirevolmente sprezzante della realissima pistola del futuro Führer. Anche Lossow e Seisser, per nulla impressionati, respinsero le offerte di Hitler.
    L' approssimativo piano dei nazisti iniziò ad annacquarsi davanti a questo semplice rifiuto; Hitler e i suoi avevano disperatamente bisogno delle truppe fedeli al 'triumvirato bavarese' per i loro ambiziosi piani di conquista nazionale.
    Hitler allora ricorse ad uno dei suoi leggendari inganni, annunciando vittoriosamente (e falsamente) alla folla che Kahr, Lossow e Seisser si erano uniti a lui, che il governo dei traditori del novembre 1918 era stato destituito e che i rivoluzionari lo avrebbero subito rimpiazzato con uno che avrebbe ridato l’ onore alla Germania, o il giorno seguente non sarebbero più stati vivi. A quel punto i nazisti estrassero dal cilindro il loro asso nella manica: Ludendorff. Il generale, pur infastidito da quanto era accaduto a sua insaputa e arrabbiato perché nei progetti del futuro governo nazista il dittatore sarebbe stato Hitler e lui solo il capo dell' esercito, accettò di collaborare alla “causa nazionale” per eliminare il grande male: la Repubblica di Weimar. L' arrivo dell' eroe della Prima guerra mondiale migliorò momentaneamente la situazione reale di Hitler, che ottenne più applausi dalla folla e strappò un pur tiepido appoggio dai tre grandi di Baviera i quali, in fondo, condividevano con i nazisti la battaglia contro il comune nemico repubblicano.
    Hitler, ingenuamente felice e convinto del successo definitivo, commise allora un grave errore: si allontanò dalla birreria per informarsi sui progressi militari delle SA che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto marciare su Monaco guidate da Röhm e che, invece, si erano mosse insufficientemente ed erano accerchiate dalla polizia presso il Ministero della guerra, salve solo perché composte in gran parte da ex commilitoni degli uomini delle forze dell’ ordine. Le SA non erano neppure riuscite a bloccare le comunicazioni telegrafiche dalla Baviera a Berlino, così le alte sfere della Repubblica, informate del putsch, provvidero a dare ordini di soffocarlo.
    Quando Hitler tornò alla birreria Kahr, Lossow e Seisser se l' erano squagliata con delle semplici scuse e, riacquistata la ragione, avevano rinnegato l' accordo con i nazisti; Ludendorff e gli altri, inoltre, erano rimasti immobili su qualunque tipo di piano di battaglia.
    Hitler allora, dopo qualche ora di tensione e alcuni stratagemmi andati a vuoto, e seppure poco convinto, decise di sferrare un attacco, proposto da Ludendorff, al centro di Monaco alla testa di circa tremila uomini per liberare Röhm. Nella mattina del 9 novembre, anniversario della Repubblica di Weimar, i fedelissimi di Hitler marciarono verso il centro di Monaco. Con Ludendorff alla testa della colonna i nazisti speravano che l' esercito bavarese non solo non avrebbe sparato un colpo, ma si sarebbe persino unito a loro, anche senza l’ appoggio del triumvirato. Questo non avvenne, per la rabbia del vecchio generale, ma almeno i nazisti giunsero indenni fino al Ministero della guerra, superando diversi posti di blocco della Reichswehr.
    Il fallace piano dei cospiranti, però, fallì del tutto quando avvenne una cosa che essi, nell’ arrogante sopravvalutazione delle loro risorse e dei loro appoggi, non avevano messo in conto: la polizia si mosse conformemente alle direttive provenienti dalla capitale, al fine di strozzare il tentato colpo di stato. A Monaco mancò ai presuntuosi nazisti esattamente quello che il ben più esperto Mussolini si curò di assicurarsi maggiormente: il sostegno del potere costituito. Neanche il nome magico di Ludendorff riuscì a risolvere l’ empasse e si passò allo scontro a fuoco.
    Fu probabilmente il disgustoso giornalista antisemita Streicher ad aprire il fuoco(e così facendo si assicurò l’ eterna stima di Hitler), ma la polizia si fece valere. I nazisti, travolti, si distesero disordinatamente al suolo, con l' eccezione del fiero Ludendorff, che rimase orgogliosamente in piedi e fu catturato. Il Führer, lievemente ferito nella sparatoria che uccise sedici dei suoi, tra i quali Graf, fuggì da codardo abbandonando i suoi uomini morenti.
    Goering riuscì a scappare, ma riportò una tremenda ferita all' inguine che lo rese forse impotente* e lo trasformò da uomo affascinante ad obeso tossicodipendente, per l' inguaribile dolore che gli provocò.
    Röhm si arrese al Ministero della guerra e fu catturato.
    Lo NSDAP si sciolse; i superstiti fuggirono in maniera disorganizzata; tra essi si distinse il fedelissimo Hess, riuscito in un primo tempo a riparare in Austria ma consegnatosi per stare vicino al suo Führer, che due giorni dopo il putsch cadde prigioniero.

    IL PROCESSO AI NAZISTI E LA TRADIZIONE NAZISTA DELLA BURGERBRAUKELLER
    Ludendorff, Hitler e gli altri nazisti catturati finirono alla sbarra per il loro tentato colpo di stato con l' accusa di alto tradimento. Il nazionalsocialismo sembrava finito, così come il suo capo, destinato per molti ad essere una semplice meteora della politica tedesca.
    Ludendorff riuscì a cavarsela: assolto perché il suo nome era idolatrato dal popolo, che si sarebbe ribellato nel caso di una sua condanna. Il putsch, però, lo bruciò politicamente, tanto che nel 1925 gli fu preferito il collega Hindenburg come nome forte per la presidenza della Repubblica tedesca. Quando poi i nazisti presero definitivamente il potere Ludendorff, pur incensato dalla pomposa propaganda ufficiale, non ebbe mai alcun peso politico o militare. Dimenticato dagli uomini con cui aveva tentato il colpo di stato, morì nel 1937 da statua di se stesso.
    Hitler, invece, fu condannato dalla Corte a cinque anni di carcere ma ottenne in aula due clamorosi successi. Innanzitutto ebbe una sentenza nei fatti leggerissima, riuscendo a scaricare parte della responsabilità su Kahr, Lossow e Seisser, pur ammettendo orgogliosamente le sue intenzioni rivoluzionarie. Ma soprattutto riuscì a trasformare il processo, colmo di giornalisti per la presenza di Ludendorff, in una formidabile cassa di risonanza per la sua figura e per il suo movimento, divenendo un politico di statura veramente nazionale e, agli occhi di molti, un eroe della patria.
    Il futuro Führer passò nella prigione di Landsberg solo nove mesi, trattato, tra l’ altro, più come un ospite d’ onore che come un prigioniero. Inoltre, fu proprio in quei pochi mesi che dettò al suo compagno di cella e fedele luogotenente Hess la prima parte del suo "Mein Kampf" che sarebbe diventato la 'Bibbia' del Terzo Reich.
    Quando infine uscì di cella, Hitler ricostituì lo NSDAP, che pure era stato dichiarato fuorilegge dalla Repubblica di Weimar; il partito rinacque molto più forte di prima e il suo leader incontrastato, rafforzato dalla sua straordinaria abilità, uscì dalla cella finalmente consapevole che un colpo di stato dilettantesco come quello del 1923 non sarebbe mai bastato per la sua rivoluzione; si trattava di costruire uno Stato nazista per sostituire quello esistente, di assicurarsi davvero l’ appoggio delle forze armate e di avere un massiccio seguito popolare. Nel 1933 Hilter riuscì in pieno a centrare questi obiettivi proprio grazie alla maturazione che visse in carcere.

    I nazisti non dimenticarono mai l' anniversario del leggendario putsch di Monaco e ne celebrarono sfarzosamente la ricorrenza anno dopo anno, anche dopo la loro presa del potere e addirittura dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Per omaggiare i loro sedici morti, incensati dalla propaganda come eroi indomiti sotto la guida dell’ intrepido Führer, e per ricordare quella disfatta che, grazie all' abilità oratoria di Hitler, si trasformò incredibilmente in un provvidenziale trionfo. Perfino nel novembre del 1942, con le incalzanti notizie drammatiche provenienti dal fronte orientale, Hitler abbandonò per qualche ora il suo quartier generale per onorare la mitica ricorrenza con il suo annuale discorso agli storici camerati della vecchia guardia.
    Dal putsch di Monaco nacque anche il mito della Blutfahne, la leggendaria bandiera con la svastica che il 9 novembre 1923 fu macchiata del sangue dei "martiri" nazisti; recuperata da un seguace di Hitler, in tutti gli anni del regime nazista fu usata dal Führer e dai suoi seguaci per 'santificare' gli stendardi con la croce uncinata. La Blutfahne divenne il simbolo più sacro ed evocativo del regime hitleriano; sulla sua fine non è possibile avere certezze, ma si ipotizza sia in mano ad un collezionista tedesco.

    *sua figlia Edda, eccezionalmente somigliante al padre, nacque forse grazie alla fecondazione artificiale, circostanza riportata dal giornale nazista Der Stürmer ma smentita da Göring.

    FONTI:
    -William L. Shirer; nella sua "Storia del Terzo Reich" dell’ edizione della Fabbri Editori l' argomento è trattato in maniera veramente completa e spero di averlo fatto trasparire.
    -http://www.centrostudilaruna.it.

    Edited by Oskar - 8/3/2013, 21:02
  14. .
    La vostra interpretazione storiografica è condivisibile ma, dal mio punto di vista, sbagliata; io sposo la tesi per cui il vero colpo mortale la resistenza giapponese lo ebbe dalla dichiarazione di guerra fatta dall' URSS; a quel punto tutti si resero già conto che la guerra per il Giappone era perduta: le bombe si potevano evitare.

    Ammetto che però il mio giudizio è influenzato dall' orrore che ne seguì e forse mi illudo che si potesse evitare.
  15. .
    Topic meno impegnato degli altri.
    saranno molto apprezzati (da me) coloro i quali indicheranno canzoni non troppo conosciute, magari con l' artista e il genere,
    Io voto per Hold on, canzone rock raffinata di Jamie Walters del 1995, Vi aspetto!!!
975 replies since 21/7/2007
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